Irpef a misura di ricchi, con la destra cresce la disuguaglianza

Davvero l’Irpef riveduta e corretta dal governo Meloni finisce per favorire i più ricchi? Davvero la manovra del centrodestra amplifica le disuguaglianze? Nel tentativo di arginare l’onda montante delle polemiche sull’equità delle misure fiscali della legge di Bilancio, il viceministro Maurizio Leo se l’è presa con l’Istat. L’analisi dell’istituto di statistica «è inconferente», ha dichiarato il regista della politica fiscale governativa intervistato martedì 11 novembre dal Sole 24 Ore. In sostanza, secondo Leo, i rilievi proposti dall’ente presieduto da Francesco Maria Chelli non sarebbero pertinenti perché si basano sul reddito delle famiglie, mentre l’imposta sulle persone fisiche è «personale e progressiva» e quindi ogni valutazione va fatta «sui redditi individuali, non famigliari». Nella sua audizione in parlamento di pochi giorni fa, Chelli aveva rilevato che l’85 per cento delle risorse stanziate dal governo per ridurre di due punti percentuali l’aliquota prevista per lo scaglione di reddito tra 28mila e 50mila euro, portandola dal 35 al 33 per cento finirebbe per favorire le famiglie più ricche, cioè quelle che appartengono ai due quinti più ricchi della popolazione. Non è questo il calcolo da fare, ribatte Leo sul quotidiano di Confindustria, e contrattacca elencando una serie di microinterventi, dal prelievo light sugli aumenti contrattuali agli sgravi sui premi di produttività che dovrebbero spostare risorse a favore dei contribuenti con i redditi più modesti, inferiori a 28mila euro. Dati alla mano, è difficile negare che, come sostiene Leo, la riduzione dell’Irpef, unita agli altri sgravi, si concentra «sul blocco centrale della distribuzione del reddito». È vero anche, però, che le famiglie del quinto più ricco in media avranno benefici per 411 euro, quattro volte in più dei 102 euro che andranno ai più poveri. Il governo dice di tassare chi ha di più, ma non tocca i veri ricchi e confonde le acque Misure inique La disputa sui numeri rischia di perdersi nel nulla. Il problema, piuttosto, come sottolineano Silvia Giannini, Simone Pellegrino e Alberto Zanardi in un’analisi sul sito lavoce.info, è che «il susseguirsi di interventi sporadici e parziali rende sempre più intricata e complessa la struttura dell’imposta» con effetti «anche sempre meno giustificabili sul piano dell’equità». In altre parole, per effetto di sgravi e bonus vari accumulati negli anni, spesso diretti a categorie ristrette, si è persa per strada la razionalità del sistema. D’altra parte, le misure introdotte negli ultimi anni non sono neppure riuscite a ridurre le disuguaglianze. I dati più recenti a questo proposito sono relativi al 2024, l’anno in cui la manovra del centrodestra ha ridotto da quattro a tre le aliquote Irpef, eliminando lo scaglione di reddito tra i 15mila e i 28mila euro, a cui si applicava un’aliquota del 25 per cento, facendolo confluire nel primo scaglione a cui si applica un’aliquota del 23 per cento. Ebbene, secondo l’analisi pubblicata dall’Istat a marzo di quest’anno, la riforma varata dal governo ha coinciso con un aumento dal 30,25 al 30,4 per cento del coefficiente di Gini, l’indice statistico che misura le disuguaglianze. Lo stesso indice misurato, con criteri parzialmente diversi, da Eurostat, è pari per l’Italia a 32,2 nel 2024 contro 31,5 nel 2023, dopo il primo anno di governo Meloni. Per altro, va ricordato che nel marzo scorso, nella sua analisi sulla redistribuzione del reddito, l’Istat aveva già segnalato che le famiglie più avvantaggiate dagli interventi sull’Irpef erano quelle con i redditi più elevati: 866 per l’ultimo quinto, quello più ricco, e 720 euro per il penultimo. Il fiscal drag è una zavorra. E pesa di più per il pubblico Poveri nel mirino Il report dell’Istituto di statistica aveva anche tirato le somme di un’altra misura “bandiera” del centrodestra. E il passaggio dal reddito di cittadinanza all’assegno di inclusione che ha provocato un calo del reddito disponibile per 850 famiglie, che in media hanno visto diminuire di 2.600 euro le loro entrate annuali. Un taglio netto che ha peggiorato di molto le condizioni di vita per il 3,5 per cento dei nuclei famigliari residenti. È ancora presto, quindi, per valutare sugli effetti della manovra in gestazione per il 2026. Le analisi di questi giorni si basano su misure che ancora devono essere tradotte in legge e quindi calate nella realtà del sistema paese. Finora però si può dire che il taglio all’Irpef introdotto dal 2024 dal governo Meloni ha avuto effetti praticamente nulli nel contrasto alle disuguaglianze, misurate con il coefficiente di Gini. Con buona pace della retorica della presidente del Consiglio che di anno in anno millanta una legge di Bilancio cucita su misura delle famiglie più povere. Favori agli autonomi Nel frattempo, il governo si guarda bene dall’intervenire sul principale moltiplicatore di iniquità del sistema. Anzi, nel 2023 il limite di reddito a cui si applica la flat tax del 15 per cento per i lavoratori autonomi è stato aumentato da 65mila a 85mila euro. E l’anno scorso, grazie al cosiddetto concordato biennale, sono state addirittura rafforzate le tutele a favore del popolo delle partite Iva, dove si concentra la netta maggioranza dell’evasione fiscale. La Francia boccia la “tassa Zucman”. La coautrice dello studio: «Far pagare i più ricchi resta inevitabile»