Il “gusto del futuro” di cui ha parlato Mario Draghi presentando alle camere il Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) rischia di avere un retrogusto amaro. Il piano prevede per la transizione ecologica un sacco di cose belle, addirittura 3 miliardi e mezzo di euro per sviluppare e promuovere la tecnologia all’idrogeno che si sta appena affacciando e persino un finanziamento ad hoc per sperimentare come imbrigliare l’energia sprigionata da onde e maree. Poco o nulla invece viene destinato all’obiettivo, molto più a portata di mano e necessario, della produzione di una batteria elettrica made in Italy. Un affare non proprio secondario, visto che, come spiega il segretario piemontese dei metalmeccanici della Fiom-Cgil Giorgio Airaudo, «senza una batteria elettrica prodotta in Italia tutto il progetto Stellantis, cioè la più grande operazione industriale nata sotto la pandemia, rischia di dirottare da un’altra parte e lasciare all’Italia solo le briciole, con quello che comporterebbe in perdita di volumi di produzione e posti di lavoro in tutta la filiera dell’automotive».

Il timore è che Carlos Tavares, amministratore delegato portoghese del nuovo gruppo nato dalla fusione di Fca e Peugeot, decida di privilegiare la Spagna per la creazione del terzo “hub” per le forniture a tutti gli stabilimenti del gruppo della parte più preziosa, delicata e pesante delle auto elettriche: che non è il motore ma, appunto, la batteria. Una decisione del genere ridurrebbe l’Italia a un paese assemblatore di parti meno strategiche, marginale nella progettazione dei nuovi modelli sempre più “smart” ed ecologici. E alla fine ne farebbe una provincia del nuovo impero che punta a diventare la quarta casa automobilistica del mondo giocandosi la carta della crescita, o almeno della sopravvivenza, nel mercato asiatico.

La variante spagnola

La Spagna ha buone carte da giocarsi in questa sfida. L’anno scorso, nonostante la crisi, ha prodotto oltre due milioni di auto nelle fabbriche delle quattro case automobilistiche presenti nel paese. In Italia ne sono state realizzate meno di 800mila contando anche i veicoli commerciali, i furgoncini Ducato della fabbrica Sevel, nella Val di Sangro in Abruzzo, richiestissimi per le consegne del commercio online.

La Spagna ha prodotto anche e soprattutto per l’export. Nella penisola iberica ha impiantato uno stabilimento anche la Renault, di cui è storicamente azionista il governo francese che adesso è entrato pesantemente nell’azionariato anche di Psa, proprio in vista della fusione Stellantis e tira entrambi i fili con il noto stile aggressivo transalpino.

Il governo italiano invece appare defilato e ha lasciato cadere l’invito dei sindacati a giocare la partita entrando con una quota azionaria nell’affare. Al contrario, l’esecutivo si è spinto oltre, dall’idrogeno futuribile all’imprigionamento del moto ondoso, dagli impianti eolici e fotovoltaici off-shore all’anidride carbonica da catturare nei vecchi impianti dell’Eni in Emilia-Romagna. E alla fine è arrivato il Pnrr da mandare a Bruxelles, con il quale si vuole sviluppare la trazione a idrogeno sottostimando il problema delle stazioni di rifornimento mentre, questo sì, si prevede la realizzazione di 7.500 «punti di ricarica elettrica sulle strade e 13.750 nei centri urbani». L’auto a idrogeno per ora è una chimera, anche perché la produzione del carburante consuma almeno quattro volte l’energia che restituisce. Il futuro visibile del trasporto privato è invece l’auto elettrica o “plug-in”. Basta notare le pubblicità in televisione, nessuna casa automobilistica promuove l’acquisto di motorizzazioni diesel che pure il governo continua ad assistere con incentivi. Il Pnrr prevede peraltro per il 2030 che nel parco auto nazionale ci siano almeno 6 milioni di vetture elettriche o ibride. Il che significa che gli italiani ne dovranno acquistare almeno mezzo milione l’anno nei prossimi nove anni, e qui forse gli incentivi servirebbero.

Questo cambiamento nei consumi è comunque ciò che si aspetta Tavares. Pur non avendo ancora presentato il piano industriale del gruppo Stellantis né incontrato i leader sindacati sottoscrittori del contratto Fiat-Fca voluto da Sergio Marchionne, il super manager portoghese ha già chiarito che i posti di lavoro cancellati dalla transizione ecologica imposta dalle politiche europee potranno essere recuperati solo arrivando entro il 2030 a produrre auto elettriche per almeno il 70 per cento. Per questo obiettivo è pronto a investire nella creazione di tre “hub” di batterie auto “made in Europe”, in modo da essere indipendente dai produttori cinesi e sudcoreani che al momento dominano il mercato mondiale con il 95 per cento della produzione di celle a ioni di litio. Proprio la produzione di una batteria europea è da anni anche l’obiettivo della Commissione di Bruxelles, che finanzia lo sviluppo di questa innovazione strategica lungo tutta la cosiddetta “catena del valore”, cioè la fornitura di materiali, lo smaltimento meno inquinante possibile e il riciclo di materiali critici come il cobalto. Protagonista dell’operazione è l’European Battery Alliance, una rete che raccoglie oltre 600 aziende.

La frustrazione italiana

L’Italia non sarebbe messa male sul piano della ricerca e neanche della produzione. Delle 17 “gigafactory” di cui l’Alleanza per la batteria europea ha previsto la realizzazione nei prossimi anni non ce n’è ancora nessuna funzionante nonostante gli ingenti investimenti messi in campo da Germania, Svezia e Francia, ma anche Polonia e Ungheria. Nei dintorni di Aversa, in provincia di Caserta, ha invece già iniziato a produrre celle a ioni di litio la Faam. La prima “gigafactory” europea è seguita dal Politecnico di Torino, ha riqualificato e impiegato 75 ex operai della Whirlpool, la fabbrica napoletana di lavatrici che ha uno dei tavoli di negoziato più incandescenti e problematici al ministero dello Sviluppo economico, dove però non si è ancora pensato di finanziare l’ampliamento del piano industriale per le batterie. Come non ha destato l’interesse del governo neanche il progetto Stellantis per un impianto di assemblaggio di batterie a Torino, che avrebbe bisogno della partnership governativa per accedere ai finanziamenti del bando europeo IpCei.

«Come italiani siamo tra i primi in Europa e non solo perché tra i fondatori della Battery 2030 ma anche perché, come livello di ricerca, siamo bravi», spiega Silvia Bodoardo, responsabile della task force sulle batterie del Politecnico piemontese e a capo del settore formazione e riqualificazione della mano d’opera all’interno della strategia europea Battery 2030. Per questo si dichiara delusa dal Pnrr: «Va bene pensare a lungo termine, all’idrogeno, di cui il ministro Cingolani senz’altro è un esperto perché come ricercatore se n’è occupato prima di arrivare a Leonardo, ma nel medio periodo ci serviranno soprattutto le batterie, sganciandoci il più possibile dall’approvvigionamento di cobalto dalle miniere del Congo dove non sono rispettati né l’ambiente né i diritti umani». Bodoardo ricorda che insieme a lei sono numerosi i rappresentanti delle realtà italiane nel board della Battery Alliance, da Comau a EnelX, da Manz a Enea. E racconta l’imbarazzo degli altri ricercatori europei con cui aveva studiato un progetto sulle batterie per il bando EraNet quando hanno scoperto che l’Italia alla fine non aveva dato l’adesione ministeriale necessaria. «Partecipa anche la Turchia, noi no», fa notare. Le batterie, evidentemente, al governo italiano non interessano.

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