Due settimane fa il Congresso Usa ha approvato un provvedimento di ben 1.900 miliardi di dollari per fronteggiare le ferite economiche della crisi pandemica. Un aumento del deficit pubblico spesso chiamato “stimolo fiscale”, che alcuni dicevano eccessivo. Ma ora giunge notizia che nuove misure da 3.000 miliardi sono in preparazione per finanziare infrastrutture, energia pulita ed educazione.

Anche in Ue le politiche di bilancio nazionali sono espansive ma non altrettanto aggressive; a esse si aggiungerà gradualmente, in alcuni anni, il notevole provvedimento comunitario denominato Next generation Eu (Ngeu). Occorre far di più? Per accompagnare l’uscita dell’economia dalla crisi pandemica servono politiche di bilancio più “stimolanti”? Nella conferenza stampa di venerdì scorso Mario Draghi ha negato che ciò sia sconsigliato dai livelli molto elevati dei debiti pubblici; ha detto che «nel 2021 i soldi non si chiedono, si danno: verrà il momento di guardare al debito, ma non è questo».

Il termine “stimolo fiscale” va però qualificato perché rischia di confondere le idee sul da farsi. Lo “stimulus bill” americano era diretto prevalentemente a integrare i redditi, a curare le falle prodotte dal Covid; è il nuovo pacchetto che contiene le misure ben più adeguate a far rifiorire una crescita sostenibile per la quale gli americani contano comunque molto sul rimbalzo automatico dell’iniziativa privata.

La crisi economica da Covid origina soprattutto da ostacoli alla produzione. La domanda è frenata dal crollo dei redditi e scoraggiata dall’incertezza futura. Ma il rimedio non è il classico stimolo di bilancio giustificato da una crisi ciclica. Anche perché l’impoverimento dei redditi e delle spese è molto diseguale fra i settori di imprese e i tipi di famiglie e richiede interventi selettivi. Inoltre, insieme alla crisi del livello aggregato di attività, alle economie servono aiuti ad adattarsi e trasformarsi per far fronte a cambiamenti globali (globalizzazione, clima, tecnologie, demografia) e a problemi strutturali che la pandemia sottolinea ma che erano presenti e non ben affrontati fin da ben prima dell’arrivo del virus.

Più micro che macro

La politica di bilancio va dunque pensata più in senso micro che macroeconomico, cioè come un insieme di provvedimenti decisi con una procedura più bottom-up che top-down. Non si tratta di rianimare l’economia pompandovi meccanicamente spesa pubblica, calcolando quanta domanda aggregata in più ci vuole e iniettandola in qualche modo nel sistema: ciò, fra l’altro, smentirebbe Draghi perché equivarrebbe proprio a «guardare al debito», anche se per aumentarlo. Occorre invece valutare singolarmente le variegate esigenze di sostegno dei redditi, di investimenti produttivi, di innovazioni tecnologiche ed educative, di agevolazioni che facilitano ristrutturazioni e riforme, e farvi fronte rapidamente, «senza guardare al debito» che temporaneamente ne deriva, nei modi più appropriati per favorire la ripresa e la trasformazione delle produzioni. Serve individuare bene le vittime della crisi e l’entità delle loro ferite nonché le imprese che promettono, se aiutate, di ripartire con successo a pandemia finita. Le economie europee sono senz’altro in ritardo rispetto agli Usa: servono nuove iniziative, con chiare priorità e un raccordo con le riforme e le innovazioni che potranno essere finanziate anche nel quadro comunitario di Ngeu.

L’espansione di bilancio risulterà allora dalla somma di interventi decisi con attenzione alla loro qualità e genererà, come ha detto Draghi, debito “buono”. Ma, buono o cattivo, il debito è tanto, in molti paesi del mondo, e deve continuare a crescere. E al debito pubblico si affianca, fino a volte a confondersi, quello privato, anch’esso sempre più grande. Sicché, prima o poi, verrà il momento di dover farvi fronte anche per evitare il pericolo che il problema del debito si accavalli con altri due, diversi ma collegati: l’inflazione e i tassi di interesse.

I tre problemi possono partire in vario ordine: possono cominciare le aspettative di inflazione, trascinando in alto i tassi e rendendo i debiti insostenibili; o può cominciare prima a emergere l’insostenibilità dei debiti e trascinare i tassi e poi i prezzi, all’insù o all’ingiù, anche a seconda di come reagisce la politica monetaria; o, ancora, può essere una delle maggiori banche centrali, disallineata dalle altre, a peggiorare le condizioni finanziarie globali e la stabilità dei prezzi. Dunque «verrà il momento»: ma potremmo anche cominciare a preparare in un cassetto qualche schema di futuro intervento. Può farlo il mondo, riflettendo, anche nel G20, su possibili meccanismi per coordinare, quando non saranno più differibili, gli interventi necessari; può farlo l’Europa, continuando il dibattito sulla riforma del Patto di Stabilità che deve precederne la reintroduzione; può farlo l’Italia, cominciando ad appuntarsi qualche idea e qualche conto che preveda l’aggiustamento graduale del debito, quando sarà opportuno iniziarlo.

Se si riusciranno ad aggiustare i flussi dei deficit si sarà forse in tempo per lasciare che lo stock dei debiti sia frenato solo indirettamente. Altrimenti il rapporto fra debiti e Pil può ridursi con una combinazione di quattro modi: l’accelerazione della crescita reale; l’inflazione; la cosiddetta “repressione finanziaria”, che consiste in tutto ciò che costringe i creditori ad assorbire le emissioni dei debitori a condizioni che, se non fossero “repressi”, rifiuterebbero; la ristrutturazione o la cancellazione di parte dei debiti in essere. Solo il primo modo è indiscutibilmente positivo. Se si conta troppo sull’inflazione si può perderne il controllo. La repressione si ottiene, ad esempio, obbligando alcuni operatori, come le banche, a investire in attività che rendono meno di quanto servirebbe a compensare la loro rischiosità: è una tassa implicita, con ingiusti e disordinati effetti redistributivi e non votata democraticamente. Ristrutturare e cancellare i debiti passati fa perdere di credibilità a quelli futuri e ne alza il costo in interessi. Conviene dunque cercare di contenere i deficit e far sì che la loro “bontà”, la qualità delle misure da cui derivano, favorisca la crescita.

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