Giovanni Chiarito potrebbe diventare una delle prime vittime del nuovo corso alla Fiat. È un dipendente della Sgl, società con quasi 200 addetti che lavora per lo stabilimento Stellantis di Melfi. «Ci occupiamo della logistica» spiega, «in pratica andiamo a prendere i componenti presso i fornitori e li portiamo in fabbrica, fino alle linee di montaggio delle vetture. Se Stellantis dovesse decidere di affidare ai propri dipendenti l’attività di logistica, la mia azienda chiuderebbe perché non ha altri clienti. Siamo molto preoccupati». Nata poco più di tre mesi fa dalla fusione tra le case automobilistiche Peugeot-Citroen-Opel (Psa) e Fiat-Chrysler (Fca), Stellantis ha dispiegato le vele nell’entusiasmo generale: finalmente il Lingotto ha trovato il partner che cercava, l’unione ha creato il sesto gruppo a livello mondiale che ieri ha celebrato ricavi in crescita del 14 per cento e in Europa compete testa a testa con la Volkswagen e dunque i lavoratori italiani dovrebbero guardare al futuro con maggiore serenità.

Ma la navigazione si è subito fatta difficile: a parte la contingenza, con la produzione rallentata da pandemia e scarsità di microchip, a preoccupare i dipendenti ex Fca c’è il confronto con i francesi, che poi sono quelli che comandano, guidati dal numero uno di Psa, e ora di Stellantis, Carlos Tavares. Con spiazzante chiarezza il top manager ha detto due cose: non ci saranno tagli negli stabilimenti italiani, ma produrre da noi è troppo costoso anche se gli stipendi sono inferiori rispetto alla Francia. Bisogna in sostanza recuperare efficienza, semplificando il prodotto e intervenendo su fornitori e servizi. Perfino risparmiando sulle imprese di pulizie. Insomma, a pagare sarà l’indotto.

«Le fabbriche Fca in Italia sono belle e innovative», spiega Marco Bentivogli, ex segretario generale della Fim-Cisl, «e sono il frutto di intuizioni manageriali e di accordi sindacali. Le differenze di costo non riguardano gli stabilimenti ma i prodotti, sia perché i volumi di vendita e pertanto di produzione si sono abbassati con la crisi, sia perché la progettazione e le vetture Fca sono più costose. La piattaforma Giorgio per le Alfa Romeo Giulia e Stelvio, per esempio, è costata molto più di quanto preventivato. E poi i prodotti Psa sono più semplici mentre sulla fascia premium Fca, con Maserati e Alfa Romeo, esprime maggior qualità, che però costa anche molto di più. Sono tutti elementi ampiamente gestibili, in cui l’Italia si è fatta sentire poco».

Ferdinando Uliano, segretario nazionale Fim Cisl, aggiunge che «se gli stabilimenti funzionassero a pieno regime il tema dei costi sarebbe molto ridimensionato. Le fabbriche italiane di Fca sono efficienti e infatti più che alle modalità con cui si produce, la discussione riguarda la semplificazione dei prodotti. Sembrerebbe che i francesi abbiano una maggiore standardizzazione su alcuni componenti. Faccio un esempio: se usi tipi diversi di cavi elettrici, hai costi più alti e fai meno economia di scala. Oppure ci si chiede se è proprio necessario offrire tante diverse colorazioni di un modello, cioè fino a che punto la personalizzazione ha senso». L’altro nodo riguarda i fornitori esterni agli stabilimenti, che in Italia sarebbero più cari rispetto alla Francia. E quindi l’idea sarebbe quella di internalizzare alcune attività.

L’ecosistema di Melfi

Ed è proprio l’ecosistema che si è sviluppato intorno alla fabbrica di Melfi a temere per il proprio futuro. Qui, in provincia di Potenza, Basilicata, c’è lo stabilimento più grande dell’ex Fiat: produce da solo circa la metà delle auto made in Italy (248mila su 460mila nel 2020) e impiega 7.200 dipendenti dei 26.319 del gruppo nel nostro paese. Ai lavoratori diretti di questo impianto vanno aggiunti i circa cinquemila delle 16 fabbriche limitrofe e altri duemila addetti alla logistica. Un piccolo universo che ruota intorno a una delle fabbriche automobilistiche più avanzate al mondo.

Lo stabilimento venne inaugurato nel 1993 per produrre la Punto. La Fiat di Cesare Romiti era attratta dagli incentivi per gli investimenti nel Mezzogiorno ma era anche intenzionata a portare in Italia il modello giapponese di qualità totale, partendo da un prato verde. Un esperimento che ha funzionato a metà, con migliaia di giovani lavoratori presi dalla campagna, imbottiti di aspettative e delusi progressivamente dal tran tran della fabbrica e dalla scarsa capacità dei capi di coinvolgere davvero gli operai. Ci furono anche due ondate di scioperi, nel 2004 e nel 2010, per ottenere migliori condizioni di lavoro.

Melfi subì una svolta tra il 2012 e il 2014 con la nascita di Fca e l’arrivo sulle linee di montaggio della Jeep Renegade e della Fiat 500X: lo stabilimento si affacciò sui mercati mondiali e venne completamente ristrutturato.

«Con le sue 350-400mila automobili annue prodotte dal 2015, pari a un Pil generato quantificabile in oltre 8 miliardi di euro, cioè circa mezzo punto del Pil italiano, non è esagerato assegnare a Melfi il ruolo di principale spinta all’aumento della crescita italiana registrata dal 2015 al 2017», scrivono Bentivogli e Diodato Pirone nel libro Fabbrica futuro (Egea, 2019). «È il primo stabilimento italiano dove il lavoro quotidiano è stato progettato assieme da ingegneri e gruppi di operai», per «migliorare quei milioni di movimenti che gli operai compiono ogni giorno lungo la catena di montaggio». Piccoli gruppi di team leader sono stati mandati da Melfi a Torino per discutere con gli ingegneri di ergonomia di come modificare i macchinari per ridurre la fatica dei lavoratori.

Occupazione dimezzata

Melfi è considerato dunque un impianto modello. Ma il calo della domanda lo ha incrinato. Oggi produce anche la Jeep Compass e ci si aspettava che le vendite aumentassero grazie alle versioni ibride, così si sarebbe potuto passare a tre turni e assorbire quei 1.400 lavoratori che mediamente sono in cassa integrazione a rotazione. Invece il mercato in flessione e la scarsa disponibilità di semiconduttori hanno impedito a Fca di rispettare gli obiettivi.

Quindi per ridurre i costi i dirigenti di Stellantis starebbero pensando di internalizzare alcune attività e questo provocherebbe immediatamente esuberi nelle aziende esterne che da anni lavorano con il gruppo. Il sindaco di Melfi Livio Valvano paventa «la perdita di almeno un migliaio di posti di lavoro» nella logistica, che significherebbe un dimezzamento dell’occupazione. Non solo. Ipotizzando un calo strutturale della produzione a Melfi, Stellantis sta studiando l’ipotesi di tenere aperta una sola linea produttiva invece delle attuali due. Su richiesta dei sindacati l’azienda ha confermato che lo studio esiste ma è in una fase di valutazione e nessuna decisione è stata presa.

Ma una volta smantellata, la linea di produzione non si ricostruisce da un giorno all’altro. E il sindacato su questo punto è molto chiaro: Michele De Palma, responsabile settore automotive della Fiom-Cgil, dice che «Melfi ha una capacita produttiva di 400mila vetture e bisogna puntare al pieno utilizzo del potenziale di stabilimento. Non c’è spazio per la disinstallazione di una linea». I timori potrebbero rivelarsi ingiustificati, ma di sicuro il ridimensionamento di Melfi sarebbe una pessima notizia per l’Italia, che progressivamente sta perdendo posizioni tra le nazioni produttrici di auto. Si ignora se il governo abbia chiesto garanzie a Tavares, e quali.

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