Presentando i conti semestrali di Enel lo scorso 29 luglio, l’amministratore delegato Francesco Starace ha detto che l’idrogeno «ha una reale possibilità» di prendere parte al processo di decarbonizzazione. Due mesi dopo all’ all’assemblea generale di Confindustria Starace ha precisato che l’idrogeno sarà competitivo solo tra tre o cinque anni. 

Sul suo impiego in ambito energetico fioriscono progetti, ricerche e piani a lungo termine in tutta Europa - la riconversione agognata dell’Ilva di Taranto su tutti - e basta leggere il titolo del libro che l’ad di Snam Marco Alverà ha pubblicato in edizione italiana a inizio agosto, Rivoluzione Idrogeno – la piccola molecola che può salvare il mondo, per capire quanto il settore stia scommettendo su un cambiamento tecnologico molto annunciato e per ora poco realizzato.

Secondo il segretario generale di Hydrogen Europe, Jorgo Chatzimarkakis: «L'Italia ha il potenziale per diventare l'hub europeo dell'idrogeno nei prossimi decenni perché è dotata della rete gas più estesa del continente e rappresenta il ponte verso il Nord Africa, dove in futuro verrà prodotta la maggior parte dell’idrogeno verde da energia solare».

Ma al di là dei proclami e delle strategie di comunicazione, c’è ancora molto da fare prima che l’idrogeno possa diventare una commodity energetica al pari del gas o dell’elettricità. E proprio sulle modalità di produzione vi sono visioni divergenti che nascondono, oltre a enormi interessi economici e strategici, una contrapposizione tra due mondi, quello gas e quello elettrico, sul modo di intendere la transizione energetica.

Utilizzato su larga scala come mezzo per immagazzinare e trasportare energia o come combustibile alternativo ai gas fossili ed inquinanti, l’idrogeno potrebbe avere un impatto veramente considerevole sul processo di graduale abbandono delle fonti fossili. Ma la stragrande maggioranza della produzione attuale - 70 milioni di tonnellate annue (dati 2018) secondo l’Agenzia internazionale per l’energia - è ricavata da combustibili fossili, principalmente gas naturale.
In pratica, l’idrogeno ad oggi è un prodotto, utilizzato soprattutto nel mercato dei gas sintetici e dei fertilizzanti, competitivo in termini di costi ma inquinante e per tale motivo spesso denominato «idrogeno grigio». Sempre secondo i dati dell’Aie, la produzione rilascia circa 830 milioni di tonnellate annue di CO2, equivalenti alle emissioni di Regno Unito e Indonesia messi assieme. Per questo bisogna trovare processi produttivi a minore impatto ambientale.

Una soluzione è rappresentata dall’ “idrogeno verde”, ottenuto da energia elettrica rinnovabile attraverso elettrolisi che non rilascia praticamente nessuna emissione in atmosfera. Può essere utilizzato anche come alternativa alle batterie perché può essere prodotto in prossimità degli impianti rinnovabili utilizzando quell’energia in eccesso che, non finendo nella rete elettrica per limiti di capacità, ad oggi viene semplicemente sprecata (problema di overgeneration, sovrapproduzione). Tuttavia, i suoi costi di generazione devono ridursi notevolmente per renderlo competitivo con il metodo produttivo tradizionale cosa che, secondo le principali previsioni, non avverrà prima del 2030.

Uno studio dell’Oxford institute for energy studies (Oies) calcola che il costo di produzione è di circa 38 euro per Mw all’ora per l’idrogeno grigio e 65-135 per Mw all’ora per l’idrogeno verde. Inoltre, quest’ultimo presenta anche il problema della quantità di energia rinnovabile necessaria per la sua produzione, attualmente molto elevata. L’ "idrogeno blu” è invece una soluzione per così dire intermedia. Questo tipo di idrogeno viene sempre prodotto dal gas naturale ma con la particolarità di catturare e stoccare l’anidride carbonica prodotta durante la lavorazione. Sebbene non totalmente ad impatto zero, esso produce meno emissioni dell’idrogeno grigio e il suo costo è di circa 50 euro per MW all’ora. Per questo rappresenta, secondo alcuni, una valida soluzione transitoria che merita di essere sfruttata nell’attesa di un pieno sviluppo dell’idrogeno verde. Il futuro dell’idrogeno come vettore energetico dipenderà proprio dal rapporto di forza di queste due visioni e dalla relativa pressione sul settore che sapranno esercitare.

Inoltre, al di là dei metodi produttivi, saranno necessari ingenti investimenti per costruire un’infrastruttura adatta al trasporto dell’idrogeno, sia dal punto di vista regolatorio sia da quello dell’adeguamento dei gasdotti esistenti. Basti pensare che a luglio, undici operatori del gas europei, tra cui Snam, hanno presentato un piano di sviluppo per la realizzazione di una infrastruttura di 23mila chilometri entro il 2040, il 75 per cento dei quali consisterà in gasdotti riconvertiti, per un costo stimato tra i 27 e i 64 miliardi di euro.

Enel conta di presentare i primi progetti nel giro di un anno anche se probabilmente non sarà l’Italia il primo paese in cui vedranno la luce, considerando altri mercati come la Spagna, il Cile o gli Stati Uniti più favorevoli in termini di regolazione, spazi disponibili, sviluppo delle rinnovabili e presenza di grandi consumatori industriali. Ma Enel ha anche ribadito che l’unico idrogeno sviluppabile deve essere quello verde, in quanto ogni dibattito su altre soluzioni risulta troppo nebuloso. Da parte sua, Eni ha invece dichiarato di stare lavorando alla produzione di idrogeno blu e punta a realizzare un grande deposito di CO2 al largo di Ravenna.

Tra le due posizioni si muove Snam e anche gli investitori stranieri. Come operatore di rete la società guidata da Alverà ha stretto accordi con l’azienda di stato azera Socar per studiare lo sviluppo dei gas rinnovabili, anche nella prospettiva di un loro futuro impiego nel gasdotto Tap. A giugno di quest’anno, ha firmato un accordo con la francese Alstom per lo sviluppo di treni a idrogeno nel Paese mentre il mese scorso ha siglato una partnership con la statunitense Baker Hughes per la realizzazione di una turbina ibrida da installare entro la fine del 2021 presso la propria stazione di compressione di Istrana, in provincia di Treviso.

La presidenza del Consiglio sta valutando anche un piano presentato dall’azienda americana Aecom e spinto dal M5s per la produzione di idrogeno verde nelle zone dell’Italia centrale colpite dal terremoto del 2016-2017.

Secondo quanto riportato dal Sole 24Ore, allo studio ci sarebbero la realizzazione di un Polo Idrogeno dell’Appennino centrale, la sperimentazione dei primi treni con lo sviluppo di un’adeguata infrastruttura e la ricostruzione dei centri abitati distrutti adottando il nuovo modello delle comunità energetiche.

Intanto l’Italia sembra aver adottato un approccio attendista sull’argomento, almeno dal punto di vista politico. Il governo ha sì menzionato lo sviluppo dell’idrogeno nel Piano nazionale Integrato Energia e Clima (Pniec) inviato a Bruxelles all’inizio di quest’anno ma non sembra, al momento, intenzionato a lavorare su una specifica strategia nazionale dedicata, cosa che invece hanno fatto (o stanno facendo) altri paesi come la Germania o i Paesi Bassi.

L’Italia dovrebbe seguire l’esempio tedesco favorendo le sinergie tra il settore dell’idrogeno e quello siderurgico, aveva detto recentemente il presidente dell’Autorità per l’energia Arera Stefano Besseghini. Ed intanto, la società di gestione fondi lussemburghese Creon Capital ha firmato un memorandum con il gruppo indiano Jsw per lo sviluppo di un polo per energie rinnovabili, Gnl ed idrogeno nel polo industriale di Piombino in modo da agevolare in parte la decarbonizzazione delle acciaierie Lucchini, di proprietà del gruppo. In attesa della politica.

© Riproduzione riservata