La misurazione dell’inflazione è una questione sociale

Negli ultimi anni, l’inflazione è tornata al centro del dibattito economico e politico. Dopo un lungo periodo di stabilità dei prezzi, la pandemia e la guerra in Ucraina hanno riacceso un fenomeno che molti consideravano ormai superato. Ma l’inflazione non è solo una variazione numerica di un indice: è un fenomeno sociale, il riflesso di rapporti di forza e di scelte collettive. In altri termini, la sua misurazione è un concetto meno neutrale di quanto non appaia. Aumenta la riscossione? No, c’è più inflazione e (soprattutto) più evasione Politica e statistica Sebbene nella sua definizione più semplice l’inflazione sia l’aumento generalizzato e persistente dei prezzi di beni e servizi, dietro questa formula apparentemente tecnica si nascondono decisioni politiche e statistiche. Dipende infatti da quali beni si includono nel paniere, da quali famiglie si considerano rappresentative e da quale indice si adotti come riferimento per salari, pensioni o politiche monetarie. In questo senso, l’inflazione non è una verità naturale, ma una costruzione economica e politica che definisce – e ridefinisce – il modo in cui percepiamo la giustizia distributiva all’interno della società. Gli economisti individuano tradizionalmente quattro cause principali della variazione dei prezzi: inflazione da domanda, quando la domanda aggregata supera la capacità produttiva; inflazione da costi che deriva da rincari nei costi di produzione (energia, materie prime, lavoro) che le imprese trasferiscono sui prezzi finali (gli shock petroliferi degli anni Settanta ne sono l’esempio paradigmatico); inflazione da aspettative se imprese e lavoratori prevedono aumenti futuri, li incorporano nei contratti e nelle trattative, rendendo l’inflazione attesa un motore di quella effettiva; inflazione da profitti quando imprese con forte potere di mercato ampliano i margini approfittando di condizioni eccezionali (crisi, guerre, shock). Tassi e inflazione, la svolta americana e i ritardi della Bce Post Covid Sebbene questo quadro sia piuttosto esaustivo, nel periodo successivo al Covid i prezzi sono cresciuti principalmente a causa di tre fattori: le strozzature nelle catene produttive, l’impennata dei costi energetici e l’esplosione simultanea della domanda. Tuttavia, l’inflazione non colpisce tutti allo stesso modo: erode il potere d’acquisto dei salari, modifica i margini delle imprese e incide sulle entrate dello Stato. È, in definitiva, un meccanismo di redistribuzione silenziosa. Di fronte all’aumento dei prezzi, le banche centrali hanno reagito con rialzi rapidi dei tassi d’interesse. Ma l’esperienza storica – dal presidente della Fed Arthur Burns negli anni Settanta fino a oggi – mostra che la politica monetaria è uno strumento troppo rigido per affrontare un’inflazione trainata dall’offerta o dai costi. Burns, a suo tempo, comprese i limiti della “forza bruta” monetaria, preferendo un approccio multidimensionale e prudente. Il suo successore, Paul Volcker, adottò la linea opposta, alzando i tassi fino al 20 per cento e inaugurando l’era del monetarismo dominante. Harris fa i conti con l’inflazione: la strategia sui prezzi gonfiati Fattore energia Se consideriamo l’inflazione in una prospettiva storica, emerge che essa è spesso sovrastimata, anche in periodi di forte tensione. Nel Dopoguerra, ad esempio, l’inflazione fu relativamente moderata e in parte funzionale alla ricostruzione. Il sistema di Bretton Woods, ancorando il dollaro all’oro, garantì per anni stabilità monetaria e crescita. Anche oggi, la cosiddetta inflazione core (al netto di energia e alimentari) tende a ridursi molto rapidamente. Dall’analisi dei dati europei degli ultimi decenni (1996-2024) emerge uno scenario inedito. Osservando l’andamento dei prezzi di produzione, energia e salari, si nota come l’energia sia un fattore determinante per il livello generale dei prezzi, in particolare per i costi produttivi. I salari, infatti, non hanno mai tenuto il passo né con i prezzi al consumo né con quelli alla produzione, mentre il rincaro dell’energia spiega in larga parte, se non completamente, l’incremento dell’inflazione generale. Ciò solleva problemi strutturali nuovi ed estremamente pericolosi: non sono i salari a guidare l’inflazione; anzi, la loro stagnazione la mitiga. Piuttosto, è l’energia che, abusando del suo ruolo oligopolistico, impone veri e propri extraprofitti. Un fenomeno che andrebbe affrontato con provvedimenti legislativi capaci di imporre prezzi calmierati o con una presenza pubblica in grado di ridimensionare il potere di mercato. Basta preoccuparsi dell’inflazione: è ora di sostenere la crescita Chi la sostiene? Ezio Tarantelli propose a suo tempo una via alternativa: la politica dei redditi, basata su accordi tra stato, imprese e sindacati per coordinare salari, prezzi e politiche fiscali. Oggi, di fronte a un’inflazione “ibrida” generata da energia e profitti, quella lezione resta attuale: servono risposte concertate, non esclusivamente monetarie. In conclusione, l’inflazione non è una malattia della moneta, ma un sintomo delle tensioni distributive di una società. La domanda cruciale non è solo come ridurla, ma chi debba sostenerne il peso. Dietro ogni punto percentuale di inflazione si nasconde un conflitto: tra chi può difendersi e chi no, tra chi determina i prezzi e chi li subisce. Più che un problema di stabilità dei prezzi, l’inflazione è – e resta – una questione di equità sociale. A che punto è la lotta all’inflazione? Tutti gli errori della Bce sui tassi