Le tariffe di Trump sono una follia economica dalle conseguenze rovinose, oltre che una dimostrazione di incompetenza: stabilite unicamente sulla base del deficit commerciale con ogni paese, sembrano ignorare che se gli americani vogliono mangiare le banane le devono importare, visto che non crescono negli Stati Uniti. Caduta del commercio internazionale e aumento dei prezzi possono portare a una recessione globale, un rischio che i mercati considerano elevato visto i crolli generalizzati.

Con le tariffe, Trump vorrebbe riportare indietro le lancette dell’orologio agli anni ‘30, rinnegando la liberalizzazione del commercio internazionale e dei movimenti di capitale che ha caratterizzato il mondo da metà anni ‘80. Con una svolta altrettanto dirompente ha sovvertito 70 anni di atlantismo, trasformando la Russia da rischio per la sicurezza europea, a partner di un nuovo equilibrio mondiale, e ridotto l’impegno nella Nato, imponendo così all’Europa la necessità di costruire una sua difesa. Un progetto dalle profonde conseguenze anche economiche. Ci sono tre ordini di problemi: uno ideologico, la diversa percezione del rischio dell’espansionismo russo; uno economico, come trasformare un settore frammentato e con i Governi committenti divisi in un’industria integrata; e infine come finanziare gli investimenti necessari.

Esigenze differenti

La diversa percezione della sicurezza dipende dalla storia dei paesi. Polonia, Paesi Baltici e Scandinavi investono maggiormente nella difesa (con la Svezia che dopo l’invasione dell’Ucraina ha rinnegato duecento anni di neutralità, e da poco ripristinato la leva obbligatoria), avendo un lungo confine con la Russia, o subito il regime dell’Unione Sovietica o combattuto una guerra (la Finlandia).

La Germania deve ancora elaborare i sensi di colpa del nazismo. Francia e Gran Bretagna hanno mantenuto un loro sistema difensivo, la prima per via dei 40 anni fuori dalla Nato, la seconda come conseguenza del “rapporto speciale” con gli Usa, più che con dell’Unione Europea, e per questo unici paesi con un deterrente nucleare. Poi c’è il pacifismo italiano, trasversale alle forze politiche, che ritiene la Russia non più una minaccia e comunque crede cha la diplomazia sia l’arma più potente per la dissuasione e la risoluzione dei conflitti. Poiché ospitiamo sette basi Nato americane con 12.000 militari, tra cui il comando della sesta flotta, le basi di bombardieri con testate nucleari e truppe aviotrasportate, che ragionevolmente sono lì a difenderci dalla Russia, mi chiedo se per coerenza chi professa il pacifismo non dovrebbe richiedere che l’Italia si dichiari neutrale ed esca dalla Nato come Irlanda e Austria.

Le obiezioni al progetto industriale di difesa europeo sono essenzialmente tre: la spesa dei paesi europei è soddisfatta prevalente dalle industrie americane, anche perché le aziende del settore non sono in grado di produrre, o competere, per alcuni armamenti come gli aerei stealth, i sistemi di difesa missilistici, le comunicazioni satellitari o la sorveglianza; il settore è troppo frammentato con un’eccessiva duplicazione e sovrapposizione degli armamenti frutto del mancato coordinamento delle politiche della difesa; gli investimenti nel settore sarebbero quindi soldi buttati perché non avrebbero alcuna ricaduta sulla crescita.

La morte cerebrale della Nato

Obiezioni che non sono condivisibili. È vero che Italia, UK e Germania importano dagli Usa rispettivamente il 90, 80 e 75 percento degli armamenti (percentuali uguali, o maggiori nel caso italiano, a 20 anni fa), ma è anche vero che la Francia è passata nello stesso tempo dal 50 per cento a praticamente zero. È un progetto di lungo periodo (ma non più lungo della costruzione di un’importante infrastruttura) ma fattibile se c’è la volontà politica. E va colta l’occasione storica della fine, di fatto, della Nato, visto che è ridicolo solo pensare che l’America sia disposta a scendere in guerra e usare il deterrente nucleare per difendere l’Estonia. La stessa discrepanza di spesa tra nazioni la si riscontra a livello di singole aziende: il fatturato negli Stati Uniti rispetto a quello del paese di origine delle principali società quotate del settore, è pari al 30 per cento per quelle tedesche e francesi ma, rispettivamente, del 180 e 130 per cento per Bae e Leonardo.

Il problema della difesa europea non risiede tanto nella capacità dell’offerta, ma nella domanda dei governi. Per esempio, poiché il Governo italiano e quello inglese hanno optato per l’F35 della Lockheed Martin, di cui sono i principali utilizzatori assieme al Giappone, la conseguenza è che le aziende locali (l’inglese Bae e l’italiana Leonardo) devono lavorare come committenti della Lockheed. Anche se sono coinvolte nella produzione dell’Eurofighter Typhoon, in un consorzio a guida Airbus, oltre che nel nuovo progetto Gcap, mentre la francese Dassault produce il Rafale. Non mancano quindi le capacità tecnologiche e produttive per competere con l’industria americana, e neppure di operare efficacemente in consorzi; ci vorrebbero anni per sostituire gli F35, ma il vero problema della difesa è la mancanza di progettualità dei governi.

La costruzione della difesa europea potrebbe essere avviata fin da subito come indicato nel Libro Bianco della Commissione che indentifica sette settori chiave da cui partire. Nazionalismo e miopia politica impediscono poi le aggregazioni transfrontaliere necessarie per le economie di scala, come fecero gli Stati Uniti negli anni ’90 quando 24 aziende della difesa si fusero in tre mega gruppi, Boeing, Lockheed e Rtx. Eppure si possono fare, come dimostra l’Airbus.

Un’industria della difesa avrebbe importanti ricadute sulla crescita perché utilizza tecnologie, materiali, sistemi informatici avanzati che darebbero un maggior impulso alla produttività, necessaria a colmare il gap con Stati Uniti: le principali società della difesa spendono infatti 5 per cento del fatturato in ricerca e sviluppo, contro una mediana inferiore al 2 degli altri settori, e investono in media quasi la metà del loro cash flow operativo. La difesa inoltre potrebbe promuovere la crescita riassorbendo le tante risorse sottoutilizzate di settori maturi come l’auto e la meccanica, che oggi attraversano un’irreversibile crisi strutturale.

La svolta tedesca

Il governo tedesco ha lanciato un maxi piano di finanziamenti pubblici, pari al 2,1 per cento del Pil l’anno, superiore all’1,3 del Piano Marshall del dopoguerra, di cui 0,8 per la difesa. Per gli altri paesi, la Commissione ha previsto prestiti garantiti per 150 miliardi, la possibilità di sforare il Patto di Stabilità dell’1,5 per cento del Pil per 4 anni, e l’uso dei fondi di coesione autorizzati. La principale critica alla Commissione è che la Germania se lo può permettere visto lo stato delle sue finanze pubbliche, ma senza debito comune (anche se ci sono i prestiti garantiti), i paesi maggiormente indebitati come l’Italia vedrebbero aumentare il costo degli interessi, e la spesa per la difesa andrebbe a discapito di quella sociale.

Una critica che non coglie il cambio di paradigma. Il massiccio piano tedesco segna la fine della politica dell’austerità come l’abbiamo conosciuta, riconoscendo che il mercato è disposto a finanziare investimenti pubblici purché abbiano un obiettivo ben definito e un chiaro impatto sulla crescita, come difesa e infrastrutture: il rendimento dei titoli di stato a lungo termine tedeschi è infatti rimasto sempre sotto al picco del 2023. In questo contesto la Commissione riconosce che non è il rigido rispetto del Patto di Stabilità a garantire la sostenibilità del debito, ma la natura degli investimenti pubblici specie se collocati all’interno di un progetto comune dalle chiare economie di scala. Non bisogna poi dimenticare che l’impatto sulla crescita del programma tedesco, e l’afflusso di capitali in fuga dagli Stati Uniti, potranno ragionevolmente sostenere il maggior debito per finanziare la difesa, senza dover necessariamente scegliere tra burro e cannoni; e comunque la Bce potrebbe intervenire a stabilizzare gli spread. È piuttosto dalla possibile recessione delle tariffe di Trump che viene il maggior rischio al nostro debito.

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