L’assemblea di Enel ha approvato, con il 49 per cento dei voti, la lista predisposta dal governo con Paolo Scaroni presidente e Flavio Cattaneo amministratore delegato; il 43 per cento è andato alla lista di Assogestioni; mentre quella del fondo Covalis, presentata per contrastare la nomina di Scaroni, non ha ottenuto i voti necessari per nominare alcun membro. Tanto rumore per nulla?

Sarebbe un grave errore considerare le critiche al governo per le nomine in Enel come un vacuo polverone mediatico, e trattare il fondo Covalis, o quello sovrano della Norvegia che ha tenuto una posizione similare, alla stregua dei disturbatori di assemblea d’antan. Le nomine di Enel hanno infatti arrecato un danno permanente alla credibilità del nostro mercato dei capitali agli occhi degli investitori stranieri.

Un problema di credibilità

La presenza pubblica nel capitale delle società quotate è un elemento comune a molti paesi europei, anche se in Italia la percentuale del capitale in Borsa controllato dallo stato è più elevata che altrove. Non è quindi in discussione il diritto del Governo a nominarne i vertici, in quanto azionista di maggioranza, ma il metodo adottato: se c’è la percezione che le nomine del Governo sono avulse dai risultati ottenuti dagli amministratori, o dalle loro competenze nel settore, ma dettate invece dalla mera volontà di imporre i propri candidati, come nel caso di Enel, o anche di Leonardo, si genera tra gli investitori il rischio che certe decisioni del management delle partecipate pubbliche possano essere influenzate più dalla convenienza politica che da quella economica, ledendo in questo modo gli interessi degli altri azionisti. Questo rischio si traduce poi in una valutazione di mercato della società penalizzante rispetto ai concorrenti.

Che questo rischio sia concreto, nel caso di Enel lo dimostra il multiplo al quale il mercato valuta i suoi utili attesi per quest’anno e l’anno prossimo, rispettivamente pari a 10,3 e 9,6 volte, e che costituisce uno sconto di circa il 20 per cento rispetto alla media dell’indice europeo di settore; sconto che sale al 30 per cento se calcolato rispetto alla media delle società a maggiore capitalizzazione.

Sicuramente lo sconto non è interamente attribuibile al rischio “politico”, ma dipende probabilmente anche dall’elevato indebitamento di Enel, specie in un periodo di rapido aumento di tassi, e dall’eccessiva dispersione geografica degli investimenti all’estero, come già sottolineato su queste colonne.

Il mercato inoltre ha la memoria corta e alla lunga vedrà nello sconto un’opportunità per guadagnare investendo in un titolo sottovalutato. Ma sono considerazioni irrilevanti ai fini del danno in termini di credibilità che gli interventi della politica nelle società quotate arrecano al paese, in quanto scoraggiano l’afflusso degli investimenti esteri di cui il nostro sistema economico ha bisogno.

Un costo salato

Abbiamo un enorme debito pubblico la cui sostenibilità dipende dalla volontà degli stranieri di detenerlo: hanno infatti il 40 per cento dei titoli di stato, al di fuori di quelli della Bce. Abbiamo un mercato del credito essenzialmente bancario, che però predilige i prestiti alle famiglie, perché meno rischiosi e dai margini più elevati. Stranieri sono i maggiori fondi di private debt e private equity che investono da noi. Come appartiene a investitori stranieri la maggioranza del flottante delle società a Piazza Affari.

Tanto minore è la credibilità del nostro mercato dei capitali agli occhi degli investitori stranieri, tanto maggiore il costo per il “rischio” politico che noi dovremo pagare per attirare i capitali di cui necessitiamo. Un costo che potrebbe essere molto salato.

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