I tempi delle lenzuolate di Pier Luigi Bersani, le liberalizzazioni fatte dal centrosinistra nella seconda metà degli anni 2000, sembrano lontanissimi. Nel Recovery plan approvato dal consiglio dei ministri poche settimane fa la parola concorrenza viene citata solo tre volte in 179 pagine. In realtà è già un passo avanti, perché nella bozza corposa di fine dicembre, la più dettagliata, la parola non compariva nemmeno. E sarà per questo che nell’ultima versione si dice che per aumentare la concorrenza si faranno molte cose, elencando la lista di progetti che vanno dalla digitalizzazione alla cybersecurity e che con la concorrenza hanno poco a che fare. Ma in compenso si promette la attesa riforma delle concessioni statali.

Concorrenza o digitale?

«Quanto alla promozione della concorrenza», si legge a pagina dieci del testo approvato dal governo, «il Piano sostiene la transizione digitale e l’innovazione del sistema produttivo attraverso stimoli agli investimenti in tecnologie all’avanguardia e 4.0, ricerca, sviluppo e innovazione, cybersecurity, nonché attraverso l’ammodernamento e il completamento delle reti ad altissima capacità in fibra ottica, 5G e satellitari, collegate all’utente finale, per assicurare una parità di accesso al mercato in ogni area del paese».

La svolta dunque a livello di concorrenza starebbe nell'assicurare alle aziende del paese una infrastruttura digitale efficiente e sicura, elencando i progetti che con la concorrenza non c’entrano ma che sono stati pensati per recuperare il gap di arretratezza sul fronte della transizione digitale e negli investimenti assolutamente necessari in ricerca e sviluppo.

A questi si aggiunge poi una riga in cui viene annunciata l’introduzione di una riforma in realtà cruciale: verrà introdotta, si legge, la riforma delle concessioni statali «che garantirà maggiore trasparenza e un corretto equilibrio fra l’interesse pubblico e privato, nonché il costante miglioramento del servizio per gli utenti».

Si tratterebbe di una svolta in un paese che ha prorogato concessioni per anni nonostante i richiami europei, ma in alcuni casi anche quelli dell’autorità anti corruzione, intervenuta per esempio quando le proroghe erano state inserite nello sblocca Italia.

Il nodo concessioni

La necessità del riassetto delle concessioni autostradali è emersa in tutta la sua evidenza con il crollo del ponte Morandi e con il lungo braccio di ferro con i Benetton. Pochi mesi prima nel 2018 il governo allora guidato dal partito democratico aveva negoziato con la Commissione europea una proroga dal 2038 al 2042, poi non recepita, della concessione per Aspi che controlla oltre tremila chilometri della rete autostradale italiana, e fino al 2030 per la A4 Torino-Milano.

Allora al ministero sedeva Graziano Delrio, che anche oggi è tra i candidati a sostituire De Micheli allo stesso ministero. A dicembre, invece, la Commissione europea ha inviato al nostro paese una messa in mora per la decisione di prorogare le concessioni balneari fino al 2033, scelta questa volta approvata dal governo Lega e Movimento 5 stelle. In base alla direttiva Bolkestein del 2006 le concessioni dovevano essere messe a gara. La Corte di giustizia dell’Unione europea tra l’altro aveva già bocciato la proroga al 2020 approvata dall’esecutivo guidato da Mario Monti.

La messa a gara, dice la lettera della Commissione europea a proposito di concorrenza, serve «a fornire a tutti i prestatori di servizi balneari la possibilità di competere per l’accesso a tali risorse limitate, di promuovere l’innovazione e la concorrenza leale e offrire vantaggi ai consumatori e alle imprese, proteggendo nel contempo i cittadini dal rischio di monopolizzazione di tali risorse».

 

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