Mps è riuscita a varare l’aumento di capitale da 2,5 miliardi (1,6 di denaro pubblico) che dovrebbe assicurarle stabilità, permetterle di attuare il piano di ristrutturazione per il rilancio, e l’eventuale uscita dello stato, come concordato con la Commissione europea. Siamo alla fine di una crisi decennale che ha già visto sette ricapitalizzazioni, l’ultima delle quali nel 2016 finanziata proprio dallo stato con 5,4 miliardi? Lo scetticismo è d’obbligo: la “svolta” di Mps potrebbe condurre piuttosto a un vicolo cieco.

Torniamo al 2016, quando la banca si trovava in uno stato di insolvenza di fatto, ma non secondo la normativa: spetta al Single Supervisory Mechanism (SSM) della Bce dichiarare che una banca è in stato di insolvenza o a rischio di insolvenza. Mps rispettava infatti i coefficienti patrimoniali richiesti, e qui sta il primo problema: per garantire la solvibilità la vigilanza del SSM si focalizza prevalentemente su ammontare e composizione del capitale in rapporto alle attività pesate per il rischio, e sull’esistenza di una quantità sufficiente di passività che potrebbero essere azzerate e/o convertite in azioni per assorbire le perdite in caso di risoluzione (il cosiddetto bail in). Ma i coefficienti di capitale sono un’istantanea che non dice nulla sulle prospettive future, e il rischio delle attività è calcolato con modelli che hanno già dimostrato di non saper valutare adeguatamente l’impatto di shock e crisi sul valore delle attività.

La solvibilità dipende dalla redditività

La vera solvibilità di una banca è data invece dalla sua capacità di generare stabilmente in futuro una redditività sufficiente a ricostituire il capitale e remunerarlo in modo adeguato al rischio. Che Mps nel 2016 fosse di fatto insolvente è dimostrato dalla rapidità con cui si sono volatilizzati i 5,4 miliardi versati dallo stato allora e i 2 dei privati, visto che oggi la banca vale appena 170 milioni.

Ma nel 2016 lo stato di insolvenza di Mps era politicamente inaccettabile, dopo le scandalose gestioni che avevano portato alla risoluzione delle banche come Popolare Etruria, Marche e alla crisi delle banche venete, successivamente poste in liquidazione.

Per la Banca d’Italia, poi, il fallimento di Mps avrebbe costituito un rischio sistemico. Per giustificare il salvataggio pubblico, si è dunque ricorso alla ricapitalizzazione precauzionale prevista dalla direttiva: lo stato interviene temporaneamente per mettere in sicurezza una banca sana nel caso di uno scenario avverso, per poi uscirne. Ma invece di essere temporaneo e precauzionale, passati sei anni, lo stato deve mettere di nuovo mano al portafoglio.

Come nel 2016, per valutare se questa sia la svolta per il risanamento, propedeutico all’uscita dello Stato, è inutile guardare ai coefficienti patrimoniali, oggi rispettati ma con un ammanco prospettico di 500 milioni. Piuttosto bisogna porsi di nuovo la stessa domanda: la banca avrà una redditività prospettica sufficiente ad assorbire i costi e le perdite passate, ricostituire il capitale e remunerarlo adeguatamente?

Stando al piano predisposto dal nuovo amministratore delegato, Luigi Lovaglio, la risposta è affermativa. Lovaglio vanta la ristrutturazione del Credito Valtellinese, e prima ancora il successo di banca Pekao del gruppo Unicredit. Ma il piano è una rappresentazione degli obiettivi da raggiungere, non la stima della probabilità che ci si riesca. La professionalità di Lovaglio non è in discussione, ma il successo del piano dipende non solo dalle sue capacità ma soprattutto dalle condizioni economiche-finanziarie in cui il piano viene attuato. E quello di Mps avrà fortissimi venti contrari.

Venti contrari

Siena, 25 gennaio 2013.Assemblea Straordinaria dei soci del MPS.nella foto: piazza del Campo a Siena.© Marco Lanni Roma Italia

In questi ultimi mesi si è chiusa per sempre la lunga fase di liquidità abbondante, finanziamenti a tassi negativi e compressione dei rendimenti dei titoli di stato con cui la Bce ha sussidiato il margine delle banche, abbattendo il costo della raccolta e permettendo loro di lucrare il differenziale sui titoli di stato, che hanno abbassato il rischio degli attivi.

Oggi, un quarto dei 114 miliardi della raccolta totale di Mps sono costituiti da finanziamenti Tltro della Bce a tassi agevolati. Di questi, 24 scadono entro l’anno prossimo e dovranno essere rifinanziati a un costo elevato, per via del basso merito creditizio di Mps, come dimostrano i 460 punti più della media di Intesa e Unicredit che scontano i suoi credit default swap (il costo di costo per assicurarsi contro il default delle sue obbligazioni). L’aumento di capitale ridurrà certamente il premio per il rischio di Mps, ma il suo costo della raccolta rimarrà più alto della concorrenza, pur a fronte degli stessi interessi attivi, ma di una maggiore rischiosità media dei debitori (presumibilmente quelli non affidabili dalle migliori banche).

Il conto economico dipenderà poi anche da accantonamenti e svalutazioni crediti, non tanto quelli attuali (il costo del credito di Mps nel primo semestre era in linea con quello di Intesa), ma quelli futuri. Le previsioni di recessione, crisi energetica, forte aumento dei tassi e fine dell’ennesimo boom immobiliare hanno causato un crollo del valore medio di mercato delle banche europee al 50 per cento del loro patrimonio, un livello toccato nella crisi dell’euro del 2011 e 2012, e superato solo al picco della grande crisi del 2008 e della pandemia. Tutto questo impatterà sui bilanci delle banche, specie le più deboli come Mps.

Costi e ricavi

Foto LaPresse -Bianchi/LoDebole

C’è poi il capitolo dei costi: 70 per cento dei ricavi, contro il circa 50 delle maggiori banche. Si prevede un corposo taglio di dipendenti e sportelli, che comporta comunque alti costi di ristrutturazione. Ma il gap con le banche più efficienti non può essere colmato solo dal lato dei costi: bisogna anche aumentare i ricavi. Dei limiti dal lato del margine di interesse e del rischio del credito si è detto; ma anche sulle commissioni pesa il retaggio di un passato in cui si sono vendute le società prodotto in cambio di accordi di distribuzione, con Axa e Anima, che vincolano la politica commerciale della banca. Questo riduce il valore per un eventuale compratore che chiederà allo stato venditore di accollarsi le penali per la disdetta di questi accordi, volendo distribuire i propri prodotti tramite la rete Mps. Costo che potrebbe aumentare nel caso, come sembra, che Axa e Anima partecipassero all’aumento per difendere i propri accordi di distribuzione.

C’è poi l’annoso problema delle liti legali con un petitum di 2,3 miliardi per quelle in cui la banca ritiene probabile di soccombere. Oltre a quello dei titoli di stato (probabilmente la stragrande maggioranza dei 22 miliardi di titoli in bilancio) su cui la banca lucrava il differenziale rispetto ai finanziamenti Bce, ma che ora sono fonte di latenti perdite in conto capitale, senza più poter contribuire al margine di interesse. Né garantisce alcunché il consorzio di garanzia delle banche per l’aumento, vista la moral suasion che probabilmente hanno subito e la consapevolezza che il mancato aumento di Mps avrebbe costituito una fonte di rischio sistemico.

Calciare la palla

Ancora una volta lo stato azionista ha preferito calciare la palla in avanti nella speranza, non so quanto fondata, di una futura “risoluzione all’Italiana”, evidentemente meno costosa di quella richiesta a suo tempo da Unicredit. A tanto infatti ammontava la passata negoziazione per l’acquisto delle attività di Mps, che lo stato, per venderle, immetteva nella banca più soldi di quanti Unicredit gli avrebbe pagato per l’acquisto. Il solo modo per celare che il valore del capitale di Mps era di fatto negativo: di fatto, la definizione di insolvenza.

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