Due recenti documenti, la Nadef (Nota di aggiornamento del documento di economia e finanza) del governo Meloni e la Financial Stability Review (Fsr) della Banca centrale europea, benché molto diversi per materia e obiettivi, meritano di essere letti congiuntamente.

La Nadef illustra l’andamento tendenziale dei conti pubblici pubblici e l’impatto dei provvedimenti che il governo intende prendere, ed è costruito sulla base di previsioni sull’evoluzione delle principali variabili macroeconomiche nel prossimo triennio.

Ma dopo la pandemia, le previsioni macroeconomiche hanno un problema di credibilità: nessuno – né governi né banche centrali – aveva infatti previsto la forte ripresa post Covid e l’ondata di inflazione che ne è seguita.

È lecito domandarsi quindi quanto possano essere credibili le stime ufficiali sul rientro dell’inflazione e quanto adeguate le politiche anti inflazionistiche in atto.

Possono venire in soccorso le previsioni implicite nei comportamenti degli investitori e nei movimenti delle attività finanziarie, non perché meno fallibili, ma perché fondate anche su osservazioni microeconomiche come il comportamento di imprese, intermediari, consumatori e investitori.

Inoltre, ed è forse l’aspetto più importante, i modelli macroeconomici tendono a dare poco peso, o addirittura ignorare, le componenti finanziarie, che sono risultate invece una delle maggiori fonti di rischio per la stabilità economica.

Ecco spiegato perché la Fsr in questo momento può essere utile a valutare la Nadef, per immaginare il futuro che ci attende e i rischi impliciti nella politica finanziaria del governo.

Pensioni pesanti

La Tavola I.3A della Nadef contiene la più chiara e realistica rappresentazione della nostra finanza pubblica: dal 2021 al 2025, a legislazione costante, il governo prevede che la spesa pensionistica salirà cumulativamente del 24 per cento; la spesa sanitaria è praticamente costante (+1,2); calano investimenti fissi e contributi in conto capitale (-6 per cento) e le altre prestazioni sociali, cioè il welfare (-2,2);

il tutto finanziato da un aumento delle imposte del 17 per cento (del 26 quelle indirette come l’Iva) e del 21 dei contributi.

In altre parole, paghiamo con più tasse un sistema pensionistico bulimico e insostenibile: secondo la ragioneria generale, con il sistema vigente le pensioni sono destinate ad assorbire una quota crescente di Pil fino al 2045 (ammesso di arrivarci).

E non è pensabile continuare a finanziarlo con aumenti di imposte e contributi, perché deprime la crescita e rende il debito meno sostenibile; senza contare che l’impennata prevista delle entrate è anche dovuta all’inflazione perché i sistemi tributari non sono indicizzati.

Invece, da anni le forze politiche attualmente al governo spingono un dibattito che, se non toccasse i diritti, la dignità e le aspirazioni dei cittadini, sembrerebbe uno scherzo: prima quota 100, poi 102, adesso parrebbe 103, ovvero si passa da 64 anni più 38 contributi a 62 più 41(sembra il gioco delle tre tavolette);

e poi l’Ape sociale, la quota donna, le “finestre” di uscita differenziate, la pensione a 67 anni e 20 di contributi o 42 anni e 10 mesi ma a qualunque età, eccetera.

Un cinico gioco a caccia di consensi, favorendo questa o quella componente della popolazione. La verità è che il nostro sistema pensionistico è a ripartizione: chi lavora paga con tasse e contributi le pensioni di chi ha smesso di lavorare: anche col contributivo, i contributi non si capitalizzano come un investimento finanziario ma servono da parametro per determinare la pensione.

Ma in un paese dove il rapporto tra pensionati e lavoratori tende a crescere e il reddito pro capite è stagnante da anni, unico caso nel mondo occidentale, la sostenibilità pone un forte vincolo alla spesa pensionistica, perché il fardello del passato è un “diritto acquisito”, quindi intoccabile, e perché, data la speranza di vita, c’è un limite ben preciso alle pensioni che si potranno pagare in futuro. Pena il default. Giocare coi numeri non serve.

Welfare in crisi

Un sistema pensionistico bulimico va a inoltre scapito del welfare e della sanità: voci che ristagnano o calano. Inoltre, il nostro welfare è concepito come trasferimento di denaro e non come qualità di un servizio che viene troppo spesso scaricato sulle spalle delle famiglie.

Un dato fornito dalla fondazione Cariplo lo dimostra chiaramente: a fronte di circa 600mila dipendenti di Servizio Sanitario e ospedali in Italia, ci sono oltre 1 milione di badanti e volontari che sopperiscono alla mancanza di un “vero” welfare pubblico.

Senza contare che il welfare, e soprattutto la sua qualità, insieme a sanità ed istruzione, è lo strumento più efficace per ridurre le disparità sociali.

Quello che il nuovo governo farà non è ancora dato sapere. Certo è che il saldo primario programmatico nel 2023 peggiora rispetto al tendenziale di oltre 1 punto percentuale. La sostenibilità del debito sarebbe garantita dalla previsione che già nel 2024 l’inflazione scende al 2,3 e il Pil sale dell’1,8, mentre la crescita salariale ( e il costo dei dipendenti pubblici) rimane sempre costante nonostante l’inflazione elevata attesa anche nel 2023.

Quattro rischi

E qui entra la Fsr della Bce, che identifica quattro principali rischi. Il primo è il rapido deterioramento del credito anche se formalmente in bonis (chiamato stage 2), per via di rallentamento economico, aumento dei tassi e maggiori restrizioni alla concessione dei prestiti.

I risultati delle banche e le previsioni degli analisti per ora vedono solo l’impatto positivo dell’aumento dei tassi sugli utili, ma il rischio di credito esiste, anche se si manifesta con ritardo rispetto al ciclo.

A questo le banche risponderebbero con una riduzione dei rischi dei loro attivi, con effetti peggiorativi rispetto alle previsioni economiche sottostanti la Nadef.

Il secondo è l’impatto dell’aumento del costo dei mutui sul settore immobiliare, che viene da un periodo di boom di vendite e prezzi; ma una frenata del mattone, per via del peso nell’economia e dell’indotto, ha un impatto pervasivo sulla crescita.

Il terzo è la ridotta liquidità dei mercati finanziari: se gli investitori decidessero di ridurre sostanzialmente il rischio dei loro portafogli, i prezzi delle attività finanziarie crollerebbero più di quanto richiesto dai fondamentali in mancanza di liquidità e di compratori o intermediari disposti a intervenire.

I crolli finanziari sono sempre rischiosi, perché hanno un’importante effetto ricchezza negativo e perché fanno emergere le situazioni di eccessivo indebitamento che le bolle finanziarie nascondono.

A maggior ragione quando molti investimenti si sono orientati, in tempi recenti, verso strumenti totalmente illiquidi. Inoltre quando ci sono forti aumenti della volatilità gli intermediari richiedono maggiori garanzie liquide a fronte degli impegni e degli strumenti derivati, che o non sono disponibili in quantità sufficiente, o le banche si rifiutano di finanziare.

I casi recenti dei fondi pensione inglesi, e delle società elettriche che volevano stabilizzare i ricavi vendendo contratti futures sul gas sono due esempi concreti di quanto reale sia il rischio di collaterale.

Il quarto rischio è che la politica monetaria incentrata sulla lotta all’inflazione, ed eventualmente a contrastare i rischi finanziari, perda ogni suo spazio di manovra nel caso di una crisi del debito sovrano di un paese. Il governo si appresta a varare la legge di bilancio e i suoi provvedimenti in ambito di pensioni, trasferimenti e tasse: meglio che prima si legga bene la Fsr.

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