Con il Consiglio dei ministri di ieri anche l’Italia ha cominciato a recepire la direttiva 2019 sul copyright, una delle più delicate normative europee, frutto di anni di dibattito politico e lobbying incrociato, e lo ha fatto a suo modo, con un decreto che vuole trasformare l’Agcom, l’autorità per le comunicazioni, nell’arbitro di tutto ciò che è connesso al diritto d’autore e che le grandi piattaforme tecnologiche devono pagare agli editori digitali e televisivi per i contenuti da loro condivisi.

Il ruolo di Agcom

Il testo dovrà essere esaminato anche dal parlamento. Ma la sostanza è che sarà l’Agcom a decidere i criteri con i quali determinare l’equo compenso dovuto da Google, Facebook e altri big tech agli editori per snippet o estratti di testi. Gli editori poi, secondo quanto spiegano dal ministero dei Beni culturali, dovrebbero essere tenuti per legge a girare parte dei proventi ottenuti ai giornalisti. L’authority, formalmente indipendente ma come noto di nomina politica, lo farà sulla base di parametri che lei stessa indicherà entro due mesi di tempo dall’approvazione della normativa.

I criteri sono ancora tutti da determinare ma serviranno a distinguere le tipologie di contenuti, tra cui rientrano anche quelli dei gruppi televisivi, e farne discendere i relativi “compensi”. Gli editori nativi digitali e specializzati già temono una discriminazione a favore dei grandi gruppi editoriali. Ma questo è solo uno dei problemi.

Da una parte il governo può vantare di aver preso una iniziativa a favore dell’editoria nel nome di un bilanciamento dei rapporti di forza con le piattaforme digitali, dall’altra le anticipazioni sul decreto sollevano diversi dubbi tra gli esperti di diritto europeo sul digitale.

La via dell’antritrust

L’Italia non è la prima nazione a recepire l’articolo 15 della direttiva sul copyright. La Francia lo ha fatto già alla fine di aprile del 2019, lasciando tuttavia liberi i negoziati. A ottobre dello stesso anno, per costringere Google a sedersi al tavolo, gli editori si sono rivolti all’autorità antitrust denunciando la posizione dominante del motore di ricerca. Solo a quel punto l’autorità ha costretto la piattaforma ad avviare le trattative con gli editori sulla remunerazione dei contenuti.

Infine, a metà luglio di quest’anno, l’authority per la concorrenza francese ha deciso di comminare a Google una sanzione da 500 milioni di euro.

Anche in Australia, altro paese che ha regolamentato il pagamento dei contenuti da parte delle piattaforme digitali, la cornice utilizzata è quella della normativa sulla concorrenza.

L’Italia più di due anni dopo ha scelto una strada diversa, dando all’Agcom il ruolo di arbitro dei contenziosi e di stilatore dei criteri dell’equo compenso. Secondo Innocenzo Genna, esperto di regolamentazione Ue delle telecomunicazioni, se la norma italiana imponesse l’obbligo di negoziazione, il rischio è che possa essere impugnata legalmente.

Un commento sibillino ieri è venuto da Marco Pancini, responsabile delle relazioni pubbliche di YouTube per l’area Emea e prima responsabile delle relazioni pubbliche di Google nell’Unione europea: «Spero che qualcuno oggi al Consiglio dei ministri abbia la lungimiranza di controllare o chiedere se il testo dello schema di decreto che implementa la direttiva sul copyright sia in linea con il testo originale della direttiva».

La risposta di Breton

Il tema sul fronte del diritto è scivoloso. A novembre 2020 il commissario all’Industria europeo, il francese Thierry Breton, rispondendo all’interrogazione di un europarlamentare, aveva spiegato che «secondo la Commissione europea agli stati membri non è permesso di implementare la direttiva europea sul copyright attraverso un meccanismo obbligatorio di negoziazione collettiva».

Infatti, secondo il commissario, l’obbligo di negoziazione avrebbe tolto agli editori la facoltà esclusiva di decidere se concedere o meno alle piattaforme digitali il diritto di pubblicare i loro contenuti, e quindi di volere o meno che Google o Facebook possano disporre, per esempio dei propri articoli.

La modifica del decreto

Google, secondo Genna, ha spesso ovviato al pagamento dei contenuti trattando aiuti agli editori in cambio di licenze gratuite, mentre ora la nuova direttiva dovrebbe far scegliere se pagare o se non permettere alle piattaforme di condividere i contenuti. Ma non è ancora chiaro se il ruolo affidato all’Agcom possa essere interpretato come un meccanismo di negoziazione collettiva.

Al ministero dei Beni culturali mostrano tranquillità: secondo i loro approfondimenti non ci sarebbe alcun problema di compatibilità con le norme europee della direttiva.

Ma la bozza finale del decreto, a cui hanno contribuito diverse amministrazioni dello stato, dal Comitato consultivo sul diritto d’autore del ministero dei Beni culturali al dipartimento per gli Affari europei del ministero dello Sviluppo economico fino al dipartimento per l’Editoria, è cambiata molto rispetto alle versione iniziale.

Per di più nel frattempo Google si è mossa, ha giocato di anticipo e fatto da sé, firmando accordi che «tengono in considerazione i diritti previsti dalla direttiva europea sul copyright» come si legge sul suo blog, su base individuale, con ben quattordici gruppi editoriali.

 

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