Ci sono previsioni sbagliate che cambiano la storia e questa è una di quelle. Non ha portato alla scoperta dell’America, ma alla sottovalutazione della Cina e delle conseguenze della globalizzazione. Nel 2001 – ricordato da tanti per il G8 di Genova con tutto il suo portato critico alla globalizzazione, per l’11 settembre, l’anno che secondo molti ha segnato gli ultimi vent’anni –, la Repubblica popolare cinese entrò ufficialmente a far parte della Wto, l’organizzazione mondiale del commercio.

Fu l’11 dicembre 2001 e in quella data quasi fuori dai radar degli anniversari inizia molto del nostro mondo attuale e di quello di domani.

A quell’appuntamento la unica grande potenza globale di allora è arrivata sulla scia di previsioni sbagliate: gli Stati Uniti pensavano di trasformare la Cina più di quanto ne sono stati trasformati.

Previsioni

Nel suo secondo mandato, Bill Clinton si spese molto per ottenere la normalizzazione dei rapporti commerciali con Pechino. Clinton applicava alla lettera una delle più semplicistiche riduzioni delle idee liberali: l’apertura al commercio internazionale secondo lui avrebbe significato per la Cina adottare il principio della libertà economica che è uno dei fondamenti di un sistema democratico. Il presidente non lo diceva apertamente ma con tutta probabilità credeva nella proprietà commutativa degli addendi che adottando l’uno arrivasse automaticamente l’altro.

Gli Stati Uniti si stavano preparando sicuramente ad accogliere la Repubblica popolare sullo scenario internazionale, ma alcuni economisti erano andati ben oltre, prevedendo che la potenza comunista nel giro di neanche vent’anni sarebbe diventata a tutti gli effetti una economia di mercato.

«Unendosi all’Organizzazione mondiale del commercio, la Cina non sta semplicemente acconsentendo a importare una quantità maggiore di nostri prodotti, sta acconsentendo a importare uno dei valori più amati della democrazia: la libertà economica», sosteneva Clinton nel 2000.

Alcuni si erano spinti oltre, tirando persino a indovinare la data: 2015. In effetti nel 2015 la partecipazione della Cina alle catene di valore globale era già arrivata al 35 per cento secondo l’Organizzazione mondiale del commercio, poco distante dal 41 delle economie “sviluppate”, ma non certo abbracciando l’economia di mercato.

Il sorpasso sui brevetti

Nel 2001, il Pil della Cina era pari a 1,33 migliaia di miliardi di dollari, sesto al mondo, ed era sesta anche per valore degli scambi commerciali con gli altri paesi: allora si stimava un valore complessivo di 0,51 migliaia di miliardi di dollari. Oggi il Pil cinese è di 14mila e 300 miliardi di dollari, aumentato di undici volte rispetto ad allora e il valore degli scambi commerciali di oggi è pari tra esportazioni e importazioni a 4,6 migliaia di miliardi. Ma soprattutto tra 2017 e 2018 si è registrato il sorpasso del numero di brevetti registrati da cinesi residenti e non residenti rispetto a quelli registrati da statunitensi.

Un’ipoteca sul futuro.

Il posto dell’Asia nel mondo

Nessun bravo professore di storia direbbe che il 2001 è la data di inizio della globalizzazione. Fiorita alla fine dell’Ottocento negli anni della seconda rivoluzione industriale, frenata con le guerre, e poi ripresa più forte di prima con tecnologie e assetti geopolitici molto diversi, la globalizzazione ha conosciuto il suo periodo d’oro con la nascita dei grandi accordi commerciali globali e dell’organizzazione mondiale del commercio nel 1995.

La Cina ha iniziato a crescere a ritmi molto rapidi alla fine degli anni Ottanta e già nel 1998 un economista e sociologo tedesco, Andre Gunder Frank, aveva avvertito che in quel contesto l’Asia era pronta a riprendere il suo ruolo nel mondo. Nel libro ReOrient, gioco di parole tra ri-orientare e di nuovo Oriente, Gunder Frank spiegava che quello a cui avremmo assistito era il ritorno dell’Asia al ruolo che le era strutturalmente appartenuto a guardare la storia nel lungo periodo. Un posto a cui bisognava guardare senza il filtro dell’eurocentrismo di cui ci eravamo nutriti per secoli.

Quell’avvertimento è ancora più interessante se si considera la biografia del suo autore, tedesco fuggito dalla Germania nazista, studi all’università di Chicago con Milton Friedman che poi ha criticato aspramente, divenuto uno dei consiglieri economici di Salvador Allende prima del colpo di stato di Pinochet e infine riparato in Europa, un economista esterno a quello che allora era considerato una variante del Washington consensus.

Questo ritornare dell’Asia al suo posto è avvenuto smentendo quello che l’occidente aveva previsto a proposito, cioè portando vantaggi per tutti e abbracciando il modello politico occidentale.

In un discorso pronunciato nel 2000 alla prestigiosa John Hopkins University con cui cercava di convincere il congresso a votare a favore dell’entrata nella Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio, Clinton disse: «L’accordo sposterà la Cina nella giusta direzione. Farà avanzare gli obiettivi per cui l’America ha lavorato in Cina negli ultimi tre decenni. E, naturalmente, promuoverà i nostri interessi economici. Economicamente, questo accordo è l’equivalente di una strada a senso unico».

Clinton aveva ragione sul fatto che l’intesa avrebbe obbligato il mercato cinese, un quinto della popolazione mondiale, ad aprirsi alle aziende americane. Anche molte delle riforme messe in campo negli anni a venire dal partito comunista cinese erano state correttamente pre annunciate da uno degli economisti più prolifici di previsioni di quegli anni, Steven N. S. Cheung.

Su molto altro però gli economisti e i politici di allora si sbagliavano. «Per la prima volta, le nostre aziende saranno in grado di vendere e distribuire prodotti in Cina realizzati da lavoratori qui in America senza essere costrette a trasferire la produzione in Cina, a vendere attraverso il governo cinese o a trasferire tecnologia di valore, per la prima volta. Saremo in grado di esportare prodotti senza esportare lavori», diceva allora il presidente degli Stati Uniti.

A vent’anni e milioni di Iphone di distanza, con container che viaggiano tra le fabbriche cinesi e la Silicon Valley, la miopia di quelle valutazioni è più chiara.

Apocalittici

Contro l’agenda dell’amministrazione americana si schierarono allora alcuni dei maggiori sindacati dei lavoratori statunitensi e a favore le organizzazioni delle imprese, ma con pesanti eccezioni come quelle del tessile.

Gli uni temevano per l’occupazione, gli altri vedevano i vantaggi di un nuovo estesissimo mercato a disposizione dei loro prodotti.

Gli uni lanciavano stime sui posti di lavoro che sarebbero andati perduti, gli altri spendevano ingenti budget pubblicitari per convincere gli uomini e le donne del Congresso a dare il loro voto a favore dell’ingresso della Cina nella Wto.

Ovviamente come tutti i fenomeni complessi non si può dire che gli uni avessero completamente ragione e gli altri completamente torto, ma la assoluta certezza è che ai primi fu prestato molto meno ascolto che ai secondi. E che le stime di allora sui costi di quell’evento erano molto al di sotto della realtà.

Gli effetti politici

Oggi l’impatto sulle economie occidentali della grande crescita della Repubblica popolare degli ultimi decenni è definita da diversi economisti come lo «shock cinese» e studiata come il fenomeno più evidente delle dinamiche e delle conseguenze dell’iper globalizzazione.

I primi a coniare questa definizione sono stati tre economisti statunitensi, David Autor, David Dorn e Gordon Hanson: secondo i loro studi tra il 1999 e il 2011 lo shock cinese ha portato alla scomparsa di un numero di posti di lavoro tra i due e i 2,4 milioni, considerando le ricadute dirette sulla manifattura ma anche quelle indirette sui servizi. Secondo Italo Colantone, docente di politica economica europea all’università Bocconi, gli studi condotti negli Stati Uniti e in Europa fino ad oggi hanno evidenziato una relazione tra l’impatto della globalizzazione nelle regioni più esposte alla concorrenza cinese, la perdita di posti di lavoro e lo spostamento verso posizioni nazionaliste e isolazioniste e partiti di destra radicale.

Negli Stati Uniti è il fenomeno dei blue collar della rust belt, gli operai delle fabbriche del Midwest rimasti disoccupati, o nel migliore dei casi sottopagati e frustrati che hanno fatto la fortuna di Donald Trump. Gli stessi a cui, chiusa l’era Trump, il nuovo presidente Joe Biden ha rivolto gran parte del suo programma politico. Ma anche in Europa anche se meno raccontato c’è stato un fenomeno simile.

Lungo e breve periodo

Colantone insieme al collega politologo Piero Stanig ha mappato tutte le regioni europee, comprese quelle britanniche, evidenziando quelle più vulnerabili, cioè quelle specializzate in produzioni manifatturiere in competizione con quelle cinesi. Secondo i loro studi in queste regioni vulnerabili shock che sono stati per anni considerati come temporanei provocano cicatrici politiche di lungo periodo.

«Si crede che i territori produttivi riassorbano gli shock in pochi anni, ma spesso non è così. Le evidenze ci suggeriscono che non solo i gruppi sociali più esposti di altri agli effetti della iper globalizzazione si spostano verso posizioni isolazioniste, ma che questo spostamento è diffuso in modo trasversale a livello territoriale perché nessuno ama vivere in territori in declino», spiega.

In più c’è la questione della durata di questi effetti: oggi in alcune regioni degli Stati Uniti molti fanno più fatica a migliorare le loro condizioni di vita rispetto a quelle dei genitori. «Io posso essere legittimamente frustrato se si perdono posti di lavoro per crearne altri in altre regioni o settori, ma se capisco che questa transizione ha un impatto più strutturale sul futuro dei miei figli allora la frustrazione si moltiplica».

Per il manuale di Economia internazionale di prossima pubblicazione, un volume che viene realizzato grazie a contributi da tutto il mondo ogni decennio, Colantone e i suoi colleghi Gianmarco Ottaviano e Piero Stanig, hanno scritto una analisi corposa intitolata “Il contraccolpo della globalizzazione” che prende in esame ben 23 democrazie avanzate e ne documenta lo slittamento protezionistico e isolazionista, nelle inclinazioni degli elettori, delle legislature, dei governi, dalla metà degli anni Novanta in poi.

«Uno dei nostri punti di partenza», dice lo studioso, «è il concetto di fallimento della compensazione. La globalizzazione produce cambiamenti positivi in aggregato, ma anche perdenti e vincenti, e negli ultimi anni è mancata la compensazione dei perdenti».

Detto in altre parole è il fallimento della redistribuzione di chi ha guadagnato nei confronti di chi ha perso, la maggioranza delle aziende che sostenevano l’agenda Clinton e i lavoratori di alcuni settori che la contestavano, per intenderci.

Ma assieme a questo fallimento ne viene un altro, evidenziato dall’economista di Harvard Jeffrey Frieden. Per anni, dice Frieden, c’è stato anche «il fallimento della rappresentazione», i politici in particolare quelli progressisti mainstream raccontavano un’altra storia.

«C’è stato uno scollamento tra la narrazione e l’esperienza quotidiana dei lavoratori e in quello scollamento si sono inseriti i Le Pen e i Trump che hanno individuato dei dati di realtà», dice Colantone.

«Ancora oggi c’è chi sostiene che nel fenomeno del populismo non contino i fattori economici come la crescita della globalizzazione, ma solo quelli culturali. Invece ci sono evidenze dell’impatto sia del commercio internazionale che dell’automazione.

Come tutti i fenomeni complessi non ci sono spiegazioni univoche».

I falsi miti

La crescita della Cina degli ultimi vent’anni è a suo modo un grandioso specchio delle nostre false narrazioni. Ci rimanda indietro deformata l’idea in cui ci siamo cullati di un commercio neutro rispetto a territori e classi sociali, una crescita senza perdenti esposta così platealmente nell’immagine dell’autostrada a senso unico di Clinton. E anche molte altre.

Rana Mitter, storico e scienziato politico che oggi dirige il centro studi sulla Cina dell’università di Oxford, e Elsbeth Johnson, esperta di management e strategia, hanno scritto a proposito dei falsi miti dell’occidente sulla Cina nel numero di maggio giugno della Harvard Business Review.

Ne elencano tre: il primo è la falsa ma fortemente radicata convinzione che economia e politica siano due lati della stessa medaglia e che con l’apertura dei mercati dovesse arrivare anche l’apertura delle strutture politiche. Un concetto che ha guidato anche la costruzione del mercato unico europeo.

Gli altri due falsi miti discendono dal primo: non è vero che l’autoritarismo cinese non abbia oggi legittimazione interna, i due studiosi spiegano che è riuscito anche a smentire l’idea che non fosse in grado di innovare e non è vero che i cinesi pensano, vivono e investono come noi.

In quell’articolo spiegano perché il percorso di apertura ai mercati della Cina è stato fatto, incredibile a dirsi, a misura della Cina e delle sue istituzioni autoritarie, con risultati in molti campi senza precedenti. Questo, lungi dal rivalutare sistemi di governo non democratici, dovrebbe farci ripensare al determinismo e alle illusioni occidentali.

Slowbalization

Negli ultimi anni, soprattutto dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump c’è stato un evidente cambiamento di approccio sulla globalizzazione da parte delle maggiori istituzioni economiche globali, spiega Colantone. Con la pandemia sono emerse ancora di più spinte per ripensare le catene di valore globale e in particolare i legami con la Cina, ma anche per forza di cose nuovi aumenti delle disuguaglianze.

Non siamo probabilmente di fronte alla deglobalizzazione, ma secondo l’economista potrebbe esserci una sorta di grande rallentamento. In inglese col solito gioco di parole la chiamano slowbalization: potrebbe generare un riequilibrio salutare dei legami internazionali che metta insieme i mercati aperti con la coesione sociale. La Cina sta mostrando al mondo la sua ricetta per realizzare questi obiettivi. L’occidente deve trovare la via per una globalizzazione politicamente sostenibile. «È nell’interesse dell’establishment delle democrazie occidentali, perché ne va della tenuta delle democrazie liberali».

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