Badanti, braccianti, rider, educatori: grazie a loro il governo può dire che cresce l’occupazione. Secondo l’Istat, in 1,2 milioni percepiscono meno di 8,9 euro all’ora, limite del lavoro povero
In Italia il lavoro povero non è un’eccezione, ma una realtà strutturale che coinvolge milioni di persone. Sono i working poor, lavoratori che, pur avendo un’occupazione, non riescono a superare la soglia di povertà. Tema affrontato anche da Mattarella: «I salari inadeguati sono una grande questione per l’Italia». Coloro che li percepiscono sono badanti, braccianti agricoli, operatori della logistica e del terzo settore: categorie essenziali, ma relegate ai margini del mercato del lavoro e dell’attenzione politica. Se non in occasione del Primo maggio, quando la premier se ne ricorda e allora decide di convocare i sindacati al tavolo istituzionale.
Il resto dell’anno, nonostante i dati allarmanti, il tema riceve interventi spot o promesse generiche.
Secondo l’Istat, a gennaio 1,255 milioni di lavoratori percepiscono una paga oraria inferiore a 8,9 euro, soglia minima per determinare la povertà lavorativa. Questo dato, che rappresenta il 10,7 per cento degli occupati, segna un aumento rispetto al 2018, quando la percentuale era del 9,8 per cento. Più colpite le donne (12,2 per cento sotto la soglia), giovani under 29 (uno su quattro) e lavoratori non qualificati (33,3 per cento). E gli stranieri, che costituiscono il 10 per cento degli occupati totali ma svolgono mansioni a bassa retribuzione e alta precarietà, come i servizi alla persona (30,4 per cento), agricoltura (18) e logistica (30).
La povertà lavorativa non deriva solo da salari bassi, ma anche da contratti precari, part-time involontari e zero tutele.
Caritas, nel Rapporto Immigrazione 2024, evidenzia che il 28,1 per cento degli stranieri che si rivolgono ai suoi centri d’ascolto è un lavoratore povero, costretto a integrare il reddito con aiuti informali o familiari. Questi dati disegnano un quadro di vulnerabilità sistemica, aggravata dall’assenza di politiche strutturali.
L’esercito invisibile
Colf e badanti sono l’emblema del lavoro povero. Secondo l’Osservatorio Domina, i lavoratori domestici nel 2022 erano 2,1 milioni, di cui solo 920mila regolarizzati all’Inps. Il tasso di irregolarità, come rilevato da Istat, raggiunge il 57 per cento, contro una media nazionale del 12,6. La maggior parte (70 per cento) è composta da migranti, spesso donne, che operano in condizioni di estrema precarietà.
Le retribuzioni sono tra le più basse del mercato. Secondo la Cgil, le badanti non conviventi guadagnano in media 5,97 euro l’ora, cifra al di sotto della soglia di dignità calcolata dalla Clean Clothes Campaign. E le difficoltà legate al permesso di soggiorno espongono le lavoratrici a ricatti e abusi, come denuncia il Rapporto sullo sfruttamento delle donne nel lavoro, promosso da Acli e Slaves No More. La politica, su questo fronte, ha fatto poco.
La regolarizzazione straordinaria del 2020, promossa dal governo Conte II, ha riguardato solo una minoranza di lavoratori domestici, e le successive misure di contrasto al lavoro nero sono rimaste sulla carta. Né la maggioranza attuale né l’opposizione hanno avanzato proposte concrete per garantire salari minimi o percorsi di stabilizzazione, lasciando il settore in balia di dinamiche informali.
Sfruttamento sotto il sole
L’agricoltura è un altro comparto dove il lavoro povero si intreccia con lo sfruttamento. Secondo stime dell’Associazione Slaves No More, almeno 50mila donne, molte delle quali migranti, lavorano in condizioni di grave sfruttamento nei campi italiani. I braccianti agricoli, spesso pagati a giornata, guadagnano meno di 6 euro l’ora, come riportato dalla Cgil. La direzione generale dell’Immigrazione del ministero del Lavoro conferma che il 18 per cento degli occupati stranieri in Italia è impiegato in agricoltura, con retribuzioni medie annue inferiori di oltre 30 punti percentuali rispetto alla media nazionale.
Il fenomeno del caporalato, nonostante le normative introdotte nel 2016, rimane diffuso. I lavoratori, spesso privi di contratto, sono soggetti a turni massacranti, alloggi precari e trattenute illegali sul salario. L’agricoltura è infatti uno dei settori con la più alta concentrazione di contratti precari, con redditi inferiori a 10mila euro annui. Anche qui, le risposte politiche sono state deboli. Il contrasto al caporalato, affidato alla Direzione generale per le politiche migratorie, si è tradotto in iniziative di vigilanza insufficienti, mentre proposte come il salario minimo, che potrebbero tutelare i braccianti, sono state bocciate dal governo Meloni e dal Cnel.
Logistica: la corsa al ribasso
Il settore della logistica, trainato dall’e-commerce, è un altro epicentro del lavoro povero, come dimostrano i casi degli ultimi giorni di Giuliani Arredamenti e dei corrieri Esselunga.
Gli operatori, spesso impiegati tramite cooperative o contratti a termine, percepiscono salari appena sopra i 7,90 euro l’ora, secondo i dati Cgil. La frammentazione del settore, con subappalti e cooperative di comodo, rende difficile l’applicazione dei contratti collettivi. L’Istat riporta che il 10,7 per cento dei lavoratori logistici è sotto la soglia di povertà lavorativa, con una prevalenza di giovani e stranieri.
Le condizioni di lavoro sono spesso insostenibili: turni notturni, ritmi frenetici e scarsa sicurezza. Il XIV rapporto del ministero del Lavoro sottolinea come gli stranieri, che rappresentano una quota significativa degli addetti alla logistica, siano “schiacciati” su basse qualifiche, con tassi di infortuni superiori alla media. La politica, tuttavia, non ha affrontato il problema in modo strutturale. Le rare iniziative, come i tavoli di confronto promossi dal ministero del Lavoro sotto il governo Draghi, si sono limitate a dichiarazioni d’intento, senza incidere sulle dinamiche di sfruttamento.
Idealismo a basso costo
Il terzo settore, che include associazioni, cooperative sociali e organizzazioni non profit, è spesso percepito come un baluardo di solidarietà. Eppure anche qui il lavoro povero è diffuso. Secondo il Forum Terzo Settore, il comparto impiega oltre 188mila persone nel settore sanitario e 102mila in attività di sviluppo economico e coesione sociale.
Tuttavia, i salari sono spesso inadeguati. La Cgil denuncia che gli educatori di cooperative guadagnano in media 8,69 euro l’ora, mentre gli operatori sociali oscillano tra i 6 e gli 8 euro. La precarietà contrattuale è un altro problema: molti lavoratori sono assunti con contratti a progetto o part-time involontari, senza prospettive di stabilizzazione.
L’Istat evidenzia che il terzo settore, pur crescendo in termini di occupazione, soffre di un cronico sottofinanziamento pubblico, che si traduce in retribuzioni basse e carichi di lavoro crescenti. La politica, in questo caso, si è limitata a interventi simbolici, come il riconoscimento del terzo settore nel Pnrr, senza affrontare il nodo dei salari e delle condizioni lavorative.
L’indifferenza della politica
Il lavoro povero, nonostante la sua gravità, non è al centro dell’agenda politica italiana. La maggioranza di governo, guidata da Giorgia Meloni, ha respinto l’introduzione del salario minimo legale, sostenendo che i contratti collettivi siano sufficienti a garantire tutele. Tuttavia molti contratti nazionali contengono minimi tabellari troppo bassi, spesso sotto la soglia di dignità. L’opposizione, d’altra parte, non è riuscita a imporre un dibattito incisivo.
Le proposte di salario minimo avanzate da Pd e M5s si sono arenate in parlamento, spesso ridotte a slogan elettorali piuttosto che a progetti concreti. Anche le misure di contrasto alla povertà lavorativa, come il Reddito di cittadinanza, sono state smantellate o ridimensionate senza alternative efficaci.
Questo disinteresse bipartisan si riflette anche nei media e nel dibattito pubblico, dove il lavoro povero è spesso ridotto a casi di cronaca o emergenze stagionali, come il caporalato estivo, ma con la completa assenza di una visione di lungo periodo che vada alle radici di una questione che affligge milioni di persone.
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