Se ordinassimo i dipendenti pubblici italiani in base alle loro retribuzioni troveremmo, utilizzando i dati Inps, che chi ha solo il 10 per cento di colleghi più ricchi di lei guadagna il doppio di chi, invece, ha il 50 per cento di colleghi più ricchi di lei. Ripetendo l’esercizio per i lavoratori del settore privato troveremmo che quel rapporto è leggermente inferiore al doppio: 1,9. Questo indicatore di disuguaglianza ci dice, quindi, che nel pubblico non c’è meno disuguaglianza retributiva che nel privato – malgrado la minore apparente variabilità di qualifiche e mansioni – e comunque si tratta di una disuguaglianza piuttosto consistente. Una conferma che la disuguaglianza all’interno dei due gruppi di lavoratori è elevata viene dalla stima di quanto diminuirebbe la disuguaglianza complessiva, cioè tra tutti i lavoratori, se il reddito medio dei dipendenti pubblici e quello dei privati fossero uguali: solo del 4%. Il restante 96% di disuguaglianza permarrebbe.

Non è forse azzardato affermare che mentre la disuguaglianza tra i lavoratori privati è ampiamente percepita non altrettanto può dirsi per quella tra i lavoratori pubblici. E questa differenza forse spiega la maggiore facilità e frequenza con cui ci si schiera a favore di interventi indistinti sul pubblico impiego che, peraltro, viene largamente percepito come un mondo di ingiustificati e omogenei privilegi sulla base della tacita, ma erronea, assunzione che i casi di ‘reddito alto e sicuro ma lavoro poco e lieve’ siano non il raro frammento di una ben più composita realtà ma il tassello ripetuto all’infinito nel monotono mosaico del lavoro pubblico. Da qualche settimana, idee di questa natura hanno preso a circolare con insistenza proponendosi come utili riferimenti per affrontare alcuni aspetti della crisi da pandemia.

Ad esempio, Cacciari ha puntato il dito contro l’inaccettabilità del fatto che i dipendenti pubblici – quelli a tempo indeterminato che possono rimanere in smart working al riparo da rischi occupazionali o cali di reddito a causa della pandemia – non paghino, diversamente dal resto della popolazione, i costi della crisi. La correzione starebbe nel tagliare i salari e imporre contributi di solidarietà a questo mondo di ‘troppo garantiti’. Argomenti come questo riscuotono ampi consensi probabilmente perché evocano l’idea che colpendo senza troppe eccezioni un mondo di privilegiati e ‘fannulloni’ si potranno raggiungere due obiettivi: ristabilire l’equità e migliorare i conti pubblici.

Naturalmente si tratta di obiettivi che non possono non essere condivisibili, ma si può discutere se essi siano raggiungibili senza tenere conto della grande disomogeneità, sotto il profilo retributivo e non soltanto, dell’impiego pubblico e si può anche discutere se l’equità debba essere ristabilita spingendo chi si presume stia meglio verso il basso e non, magari, convergendo su qualche punto intermedio.

Per molti dipendenti pubblici, anche fra quelli in smart working, la pandemia ha significato un aggravio dei carichi di lavoro – anche qui emerge una forma di disuguaglianza – ma spesso tale da permettere di considerare giustificabile il privilegio della costanza del salario. Possono esserci stati casi di beneficio sotto forma di minor lavoro, ma è difficile sostenere che fossero generalizzati ed è ingiusto presentare lo smart working dei dipendenti pubblici come una sorta di vacanza pagata. In generale la domanda di prestazioni pubbliche non è diminuita, al contrario.

Per questo motivo la proposta di Boeri di introdurre la Cassa Integrazione anche nel pubblico impiego come modalità di sospensione dal lavoro dei dipendenti poco utilizzati ci sembra poco tempestiva. La pandemia non ha ridotto l’utilizzazione dei lavoratori pubblici come ha fatto con quelli privati.

Peraltro, se nel pubblico c’è chi  ha goduto di uguale salario senza aggravi di lavoro nel privato c’è chi ha goduto di un beneficio in termini di reddito senza grandi aggravi in termini di carichi di lavoro. Appunto, disuguaglianze di qua e disuguaglianze di là. E se l’obiettivo è l’equità – e non soltanto raccogliere in qualunque modo risorse per il bilancio pubblico – bisognerebbe raggiungere gli avvantaggiati di qua e quelli di là, evitando di dare l’impressione che stiano tutti o in larghissima maggioranza in uno dei due circoli.

Quanto al beneficio specifico dello smart working, se di vero beneficio si tratta, non si dovrebbe dimenticare che di esso hanno goduto non solo i lavoratori pubblici ma anche quelli privati. Si tratta, più precisamente, dei dipendenti delle grandi imprese private (le uniche, per natura organizzativa, assimilabili alla Pubblica Amministrazione) che, nella quasi totalità dei casi, hanno beneficiato dello smart working da marzo in poi senza essere esposti a rischi occupazionali. Se lo smart working giustificasse un contributo di solidarietà quest’ultimo dovrebbe applicarsi anche a una parte dei lavoratori privati. 

In un precedente intervento su Domani abbiamo sostenuto che è estremamente importante evitare di trattare come se fossero omogenei gruppi che non lo sono e, inoltre, che l’eterogeneità all’interno di gruppi considerati erroneamente omogenei è quasi sempre molto ampia. Dimenticarlo significa violare, piuttosto che realizzare, l’equità. Ed è questo il rischio che si corre suggerendo interventi che ignorano l’eterogeneità e che si ispirano a pregiudizi poggiati su fragili piedistalli e al predominio dell’aneddotica sulla dettagliata conoscenza dei fatti. Come è nel caso del lavoro pubblico. L’equità richiede di raggiungere il privilegio che c’è nel pubblico e quello che c’è nel privato. Dunque, di rincorrere il privilegio, specie quello macroscopico, ovunque esso si trovi. E, facendo questo, verosimilmente si faranno affluire nelle casse dello stato più risorse di quelle che si potrebbero prelevare, ciecamente, dal mondo del lavoro pubblico.

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