L’unica certezza della presidenza Trump è l’incertezza.

Quale è l’obiettivo dichiarato delle tariffe? La re-industrializzazione e la riduzione del disavanzo commerciale. Con la globalizzazione gli Stati Uniti si sono specializzati nei servizi, tecnologia e finanza, delocalizzando all’estero le produzioni. Ma le risorse prima utilizzate dall’industria non potevano essere spostate altrove perché il capitale è specifico e le qualifiche del lavoro differenti: un’acciaieria non può essere riconvertita in un impianto tecnologico, né un metalmeccanico trovare posto in banca.

Di qui il malessere sociale che spiega Donald Trump. Il disavanzo commerciale è invece dovuto all’eccesso di risparmio di Cina ed Europa, frutto della loro cronica carenza di consumi, che ha come unico sbocco l’accumulo di crediti verso gli Usa, a fronte delle merci esportate. De-industrializzazione e disavanzo commerciale sono dunque il sintomo di due disequilibri reali.

Ma è sbagliato pensare che le tariffe possano invertire trent’anni di globalizzazione: il costo di produrre negli Usa comporterebbe un aumento dei prezzi insostenibile per i consumatori; mentre gli investimenti diretti degli stranieri richiedono molto tempo (due anni per un nuovo sito produttivo), e la certezza del quadro politico e normativo: è quindi probabile che eventuali decisioni vengano prese non prima delle elezioni di Midterm (fine 2026) per vedere se Trump riuscirà a mantenere il controllo di Senato e Congresso.

Risolvo tutto io

Né si può sperare che il disavanzo commerciale si riduca senza un drastico rallentamento dei consumi americani, e un aumento della domanda interna in Europa e Cina. Non possono essere dunque queste le vere motivazioni delle tariffe: sembra piuttosto che Trump voglia utilizzarle per dimostrare al mondo che è capace di risolvere rapidamente tutti i problemi (vedi anche guerra in Ucraina) grazie alla sua superiore abilità nel negoziare e fare affari.

Basta vedere il discorso ufficiale in cui si vanta che 70 capi di stato lo supplicano di fare un accordo, fino a volergli «baciare il c**o». La spiegazione più illuminante di un simile comportamento l’ho trovata in una applicazione della teoria dei giochi utilizzata per gestire il bullismo.

Perché Trump ha fatto crollare i mercati, e la volatilità rimane elevata anche dopo aver rinculato con la moratoria dei 90 giorni? Nonostante la moratoria, Trump ha innalzato la barriera tariffaria più alta del Dopoguerra: 10 per cento su tutte le importazioni, 25 su auto, acciaio e alluminio, nonché su Messico e Canada per i beni che non rispettano i criteri del trattato con gli Usa, e 145 su quelli cinesi.

Tariffe che aumenteranno i prezzi al consumo, e che hanno fatto crollare l’indice di fiducia dei consumatori sceso ai livelli minimi del Covid. Colpisce inoltre la terrificante incapacità dell’amministrazione che ha stabilito le tariffe a casaccio come dimostrato dall’ormai famoso caso delle “importazioni” dalle isole popolate solo da pinguini. Specie se questa è associata all’imprevedibilità di Trump che non segue alcuna logica discernibile, creando così un’incertezza che rende troppo rischiose le decisioni di investimento.

È pertanto probabile che la volatilità rimarrà elevata fino all’estate, non solo per vedere come si conclude la moratoria, ma anche per conoscere i risultati delle imprese nel secondo trimestre e avere i primi dati concreti sull’impatto delle tariffe.

Quali altre sorprese?

A prescindere dal risultato delle elezioni di Midterm, quali altre sorprese ci si può aspettare dal resto del mandato di un presidente che non ha mai ammesso la sconfitta elettorale del 2020, scatenando un assalto al Campidoglio? Alla lunga, è la crisi delle istituzioni democratiche americane il vero rischio per l’economia del paese.

Che cosa ha indotto Trump a fare marcia indietro con la moratoria di 90 giorni? I mercati finanziari. Il crollo in Borsa non avrà toccato le tasche degli americani che sostengono Trump, ma Wall Street è il barometro delle aspettative delle imprese che temono le conseguenze recessive delle tariffe.

In questi casi i capitali tipicamente escono dalla Borsa alla ricerca di “sicurezza” nei titoli di stato americani, e gli afflussi di capitale rafforzano il dollaro. Ma la reazione al Liberation Day è stata diversa: oltre alla caduta delle azioni si è assistito anche all’impennata dei rendimenti sui titoli di stato (si muovono inversamente ai prezzi), e il dollaro si è indebolito.

Fuga di capitali

Diverse le spiegazioni per la crisi dei TBonds, ma una cosa è certa: se la Borsa crolla, la volatilità sale a livelli toccati solo nelle precedenti crisi finanziarie, il dollaro si indebolisce e gli investitori disertano il debito pubblico, è il segnale inequivocabile che i capitali fuoriescono dagli Stati Uniti, forse segnando l’inizio della fine del predominio finanziario del paese.

Un segnale che neppure Trump poteva ignorare. Né i suoi più ardenti seguaci come Elon Musk che ha dato del «demente» a Peter Navarro, l’ideologo delle tariffe (insulto ricambiato). Il principale errore delle tariffe di Trump è che il dominio finanziario degli Stati Uniti è lo specchio del suo disavanzo commerciale, che genera afflussi di capitale di pari ammontare. Autarchia e libertà dei movimenti di capitale non possono coesistere: se Trump vuole azzerare il deficit commerciale con le tariffe deve anche imporre restrizioni ai movimenti di capitale, e accettare il declino finanziario americano.

La migliore strategia

Quale è la migliore strategia durante la moratoria? Quella per gestire i bulli: fare la minima concessione a Trump che gli permetta di vantarsi di averla fatta pagare a chi ha sfruttato gli Stati Uniti. Ma al tempo stesso avviare un piano per trarre vantaggio nel lungo periodo dall’isolazionismo degli Stati Uniti.

L’Europa sembra sulla strada giusta: un po’ per fortuna (la moratoria è arrivata inaspettata prima del suo bazooka), un po’ perché è riuscita a mantenere la coesione evitando di andare da Trump in ordine sparso (errore madornale la visita di Giorgia Meloni), ma soprattutto perché ha iniziato a sviluppare una strategia in questo senso come nel caso della difesa comune, l’integrazione del mercato finanziario europeo, la criptomoneta per internazionalizzare l’euro, e la ricerca di accordi per lo sviluppo del commercio in altri mercati (Cina, India e resto dell’Asia).

Lo scontro Usa-Cina

Perché la Cina è scesa in guerra con Trump? La corsa al rialzo delle tariffe (125 per cento le cinesi, 145 le americane) servono solo per l’opinione pubblica dei due paesi: tanto valeva proibire il commercio bilaterale. Anche Xi Jinping si comporta da “bullo”, perché in gioco c’è l’orgoglio di essere il leader mondiale.

Ma rispetto a Trump ha il vantaggio di non dover essere eletto ogni quattro anni, né ci sono Midterm per i membri del Partito comunista, potendo quindi imporre maggiori sacrifici ai cinesi, come accaduto durante il Covid. Ha pertanto il tempo per sviluppare sbocchi alternativi alle merci cinesi e promuovere lo yuan come moneta di riserva internazionale; ma mentre il mercato finanziario cinese è isolato dai capitali internazionali, la Cina può destabilizzare quello americano sventolando la minaccia dei 760 miliardi di TBonds che detiene. Senza contare che la guerra è già in corso da tempo per i servizi (i film americani al bando come Google) e per la proprietà intellettuale (il blocco Usa al trasferimento di tecnologia). Non so chi vincerà la guerra ma costerà cara sia alla Cina sia agli Stati Uniti.

Il passo indietro

Come è stato possibile? Non c’è solo Musk che giudica «dementi» le tariffe di Trump: i più grandi banchieri (Jamie Dimon di JP Morgan), finanzieri (Laurence Douglas Fink di BlackRock), industriali (Ken Langone di Home Depot), venture capitalist (Joe Lonsdale) ne hanno pubblicamente stigmatizzato la stupidità e dannosità.

Che cosa li accomuna? Sono stati i maggiori finanziatori di Trump, rendendo possibile la sua elezione. Lo hanno sostenuto ben sapendo del disprezzo di Trump per le regole della democrazia e degli accordi internazionali e l’amore per le tariffe. Lo hanno fatto ugualmente pensando ai vantaggi della riduzione delle tasse, le liberalizzazioni, la deregolamentazione promesse (non mantenute) da Trump. Lamentarsi adesso è da ipocriti. Ma il costo della follia delle tariffe la pagano tutti.

© Riproduzione riservata