È particolarmente interessante l’intervista rilasciata alla Stampa da Guido Barilla, presidente della omonima multinazionale alimentare, perché dimostra che anche gli imprenditori che hanno successo nel mondo e che sono riusciti nella di solito non facile transizione generazionale degli imperi famigliari ereditati conoscono poco o nulla del contesto economico del loro paese. 

Dice Barilla, entrato nell’azienda di famiglia a 24 anni – all’inizio degli anni Ottanta - che «molte persone scoprono che stare a casa con il sussidio è più comodo rispetto a mettersi in gioco cercando lavori probabilmente anche poco remunerati».

Quello che scorge dalla sua posizione di imprenditore globale è che nel nostro paese «c'è un atteggiamento di rilassamento», quasi uno stato dell’anima dunque, da parte di non meglio precisati «alcuni» che spera che termini presto.

Ora non è chiaro se la sua speranza sia riposta nella abolizione del reddito di cittadinanza, un sostegno presente in quasi tutti i paesi europei, seppure da ritoccare, rivedere e soprattutto da abbinare a politiche attive degne anche nel Mezzogiorno, un sussidio che in Italia, durante la crisi, sommato al reddito di emergenza, ha aiutato quattro milioni di persone, facendo loro incassare un importo medio di circa 500 euro. 

Di certo, il messaggio è rivolto alle giovani generazioni: «Rivolgo un appello ai ragazzi: non sedetevi su facili situazioni, abbiate la forza di rinunciare ai sussidi facili e mettetevi in gioco». La situazione facile dovrebbe essere aver scontato sulla propria pelle una delle più grandi crisi economiche degli ultimi 120 anni, ma considerando il concetto di giovani che si ha in Italia, potrebbe averne vissute già due. 

Il premio che non c’è

A questi giovani, dice Barilla, serve il coraggio, appunto, e le competenze. Ebbene i dati dicono che in Italia il ritorno di investimento di un titolo di studio, si dice la sua “premialità”, è più basso che nel resto d’Europa. E questo perché il tessuto economico del paese,  al di là di virtuose minoranze, non premia le competenze e c’è un problema anche di formazione adeguata. 

I dati dicono che questo problema arriva da lontano: già considerando il periodo che va dalla metà degli anni Novanta alla crisi del 2009 sono cresciuti solo i salari dei lavoratori di qualificazione media, e i salari dei lavoratori altamente qualificati sono calati più di quelli a bassa qualifica. 

Undici anni dopo, luglio 2020, il rapporto sull’occupazione dei giovani italiani pubblicato dall’Istat dice più o meno la stessa cosa: «Nonostante il limitato numero di giovani laureati in Italia, le loro prospettive occupazionali sono relativamente più deboli rispetto ai valori medi europei».

E ancora: «Tra i più giovani, la differenza Italia-Ue nei tassi di occupazione dei laureati sale dunque a 9 punti; indicando un mercato del lavoro che assorbe con difficoltà e lentezza il giovane capitale umano più formato del Paese». 

Se questo non bastasse, poi, il tasso di occupazione delle giovani donne, più istruite in media dei giovani uomini, «resta significativamente inferiore a quello maschile». Certo, ci sarebbe la soluzione, accettare lavori poco remunerati, come suggerisce il presidente del gruppo alimentare, e continuare il declino di un paese che ha un problema di produttività latente e mai affrontato, che accumula risparmi – viva gli ereditieri – ma ha una classe imprenditoriale che investe poco e spesso male e non scommette sulle nuove generazioni. Ha ragione Barilla, giovani italiani, prendete coraggio e non sedetevi sulle comodità: cambiate paese. 

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