Dieci anni fa, Emma Marcegaglia presiedeva la Confindustria che si schierò contro la legge che introduceva l’obbligo del 33 per cento di donne nei consigli di amministrazione e organi di controllo delle società quotate. L’associazione degli industriali assieme all’associazione bancaria italiana, Abi, e alle assicurazioni, Ania, scrissero alla commissione finanze del Senato che stava esaminando la proposta per elencare tutti i rischi che comportava per il mercato.

I rappresentanti delle imprese, delle banche e delle compagnie assicurative italiane, praticamente il mondo intero a cui la legge 120 del 2011 guardava, vedevano nelle quote riservate alle donne una minaccia per il mercato e la meritocrazia, come se il fatto che solo gli uomini ricoprissero certi incarichi nei cda di centinaia di imprese fosse, quella sì, questione di merito.

La lettera di Confindustria chiedeva di eliminare le sanzioni dalla legge, svuotandola quindi di ogni effetto. Oggi, dice Alessia Mosca, ex parlamentare del Pd e cofirmataria della norma, «l’equivoco si è chiarito, le quote hanno portato più meritocrazia, non meno, più qualità nei consigli di amministrazione». Allora, per rispondere ai tentativi di frenare il cambiamento, nelle caselle di posta dei senatori chiamati ad esaminare la legge arrivarono diecimila mail: erano donne, uomini, associazioni, un sostegno trasversale che permise di varare la legge, un successo collettivo.

Questa è la storia a tratti rocambolesca e contemporaneamente molto seria di come l’Italia è riuscita a fare un salto in avanti nella parità tra i sessi forzando la mano. Nel 2011 solo sette consiglieri di amministrazione su cento erano donne, 182, già nel 2019 si era arrivati al 36 per cento, 807. «Senza quella legge e a quel ritmo avremmo raggiunto i livelli di oggi in cinquant’anni», dice Lella Golfo, la prima firmataria.

Foto Ufficio Stampa Quirinale - LaPresse 17-06-2016 Roma, Italia Politica Mattarella con le vincitrici del Premio "Donne ad alta quota" Nella foto: Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Lella Golfo, Presidente della Fondazione Marisa Bellisario, con le vincitrici del Premio "Donne ad alta quota", oggi 17 giugno 2016 (Foto di Paolo Giandotti - Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica) DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE

«Si può fare»

Da trent’anni presidente della fondazione Belisario, allora eletta in parlamento con il Popolo della libertà, Golfo è stata la prima a proporre le quote, ma la sua rivoluzione ha avuto molto a che fare con la tattica e l’intelligenza e l’uso del potere. «La prima proposta che feci fu di creare una autorità per la parità di genere, mi dissero ‘no’, che non si potevano fare authority, anche se negli anni successivi ne nacquero altre tre o quattro. La legge sulle quote non prevedeva spesa, allora mi dissi ‘si può fare’. Pensai che con la firma del capogruppo sarebbe stato più facile e ottenni quella di Fabrizio Cicchitto che pure oggi rinnega quel sostegno. Mandammo una lettera a tutte le società interessate, allora erano 280, ci risposero positivamente una ventina, alcune di peso, capimmo che c’era la sponda».

Dopo i primi scontri alla Camera venne chiamato in audizione Corrado Passera, allora amministratore delegato di Intesa San Paolo, che era tra quei sostenitori: «Organizzammo una conferenza stampa, vennero i giornalisti». Fu una buona pubblicità. La legge fu approvata in due anni, superando critiche dentro l’aula - «il presidente della commissione finanze del Senato la definì una porcheria», dice Golfo - e fuori - «Vittorio Feltri mi propose per i servizi sociali». Oltre al sostegno, anche l’opposizione era trasversale. Emma Bonino all’epoca, per esempio, era contraria e sono in molte secondo Mosca «le convertite sulla via di Damasco», a partire dalla stessa Marcegaglia.

Roberto Monaldo

La legge sulle quote rosa, così controversa ai tempi della sua introduzione, è tra le più monitorate e proprio il monitoraggio da parte della Consob, l’autorità per il mercato e la borsa, ne ha provato l’efficacia e gli effetti. Non sono mai state comminate sanzioni, ci si è fermati ad appena cinque diffide nei primi anni per chi ha ritardato ad adeguarsi per questioni procedurali.

«Con l’aumento delle donne nei consigli di amministrazione si è alzata la percentuale degli amministratori laureati, quelli con titoli post laurea e con il dottorato», dice l’economista dell’università di Torino, Daniela Del Boca, otto anni nel cda della compagnia di San Paolo. «Le quote», aggiunge, «hanno anche svecchiato i cda, perché le donne entrate sono in media più giovani, e hanno portato dentro ai consigli background accademici, delle professioni e della consulenza».

Le ricerche di Del Boca e della collega economista Chiara Daniela Pronzato dimostrano che nei gruppi misti aumenta la produttività, perché si mettono insieme capacità differenti. Una ricerca Consob dice che la composizione mista dei cda ha effetti positivi anche sulle performance aziendali, ma solo se si arriva ad avere almeno un venti per cento di donne capaci di fare massa critica e fare la differenza.

La legge italiana ha reso obbligatori tre rinnovi degli organi sociali con l’obiettivo da raggiungere gradualmente un terzo di donne. L’obiettivo è stato raggiunto prima della fine dei tre rinnovi. Alla fine del 2019, poi, l’obbligo è stato esteso, questa volta con l’obiettivo a due quinti e prolungandolo a sei rinnovi consecutivi. La maggioranza delle società che si sono quotate negli ultimi tre anni si è già adeguata alla meta finale arrivando in Borsa già con il 40 per cento di donne, e senza distinzione di settore. Un esempio è la società di cantieristica per yacht San Lorenzo, ma anche la Carel industries che produce pannelli solari, la società di design Neodecore, la banca per imprese Illimity, la società dell’agroalimentare Newlatfood o l’Italian Exhibition group, che gestisce le fiere di Vicenza e Verona. Mentre diversi grandi gruppi, da Snam a Enel, hanno trascritto l’obbligo nello statuto.

I rapporti stilati dalla Consob dicono che nei primi anni di applicazione della legge è cresciuto l’interlocking, cioè che è aumentato il numero di donne che ricoprivano più incarichi in più consigli di amministrazione, ma il fenomeno recentemente è in calo.

Con il nuovo obiettivo potrebbe tornare a crescere, ma secondo gli esperti è una questione di dare il tempo alle donne di affermarsi.

Paola Mascaro, vicepresidente alla comunicazione di Avio Aero e presidente dell’associazione Valore D, che ha curato corsi per centinaia di professioniste che volevano entrare nei cda, dice che in questi cambiamenti conta anche «la propensione al rischio delle imprese». Le aziende e quelle quotate più di altre non vogliono poter essere attaccabili e per questo magari nelle scelte rischiano meno andando a scegliere l'usato garantito. «Poi», aggiunge Mascaro, «c’è un fenomeno trasversale ai generi che è quello delle reti di conoscenze, ed è noto che siamo meno brave a fare networking, dobbiamo lavorare sulla nostra visibilità e il nostro posizionamento».

Visibilità e potere

Prima delle quote le presenze femminili nei consigli di amministrazione erano per il 42 per cento dovute a legami famigliari. Erano le eredi delle famiglie industriali, le mogli di, le figlie di, una particolarità del capitalismo famigliare italiano, ma nel 2018 la percentuale già era calata al dieci per cento.

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«Quello che non è soddisfacente», dice Marcato, «è che gli incarichi restano quelli non esecutivi, questo vuol dire che il potere non è nelle mani di queste donne». Il tasso di amministratrici delegate rimane stabilmente scarso, appena al cinque per cento. «Le quote», dice Del Boca, «si sono fermate lì all’isola dei consigli di amministrazione. Non hanno avuto effetti né sopra né sotto: né a livello esecutivo, di leadership, né nei quadri».

Anche la sola presenza in Italia è concentrata in un ambiente apicale. Il tasso di occupazione femminile sempre al di sotto del 50 per cento, con la crisi è tornato a scendere. Resta profondo il divario tra posizioni lavorative con alti livelli di qualifica e di istruzione, dove le donne quando entrano tendono a restare, e quelle ai margini e a bassa qualifica, dove entrano giovani, e dove c’è una alta percentuale di uscita con la gravidanza. Per Mosca che oggi insegna politiche commerciali a SciencesPo, «il vero tema da aggredire è la parità di accesso al lavoro e quindi la sua modalità di gestione».

«Abbiamo rotto una lobby maschile e creato una isola felice», conclude Golfo, «ma in un paese che arranca».

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