L’avvertimento è preciso: «Si presenteranno dei momenti difficili, come conciliare un desiderio della Lega di una politica fiscale che tenda alla flat tax con il desiderio di altri e di tutti gli organismi internazionali introducendo qualche elemento di patrimoniale e spostando il carico fiscale via dal lavoro». A sentire il suo predecessore, l’ex primo ministro “tecnico” Mario Monti, se c’è una riforma che un eventuale esecutivo di Mario Draghi, potenzialmente sostenuto dalla Lega e dal Pd, avrà difficoltà ad affrontare è la questione più politica che ci sia: le tasse.

Il compromesso di Salvini

Il leader della Lega ha detto che le imposte sono esattamente il punto in cui ci si torna a dividere. Ma ha aggiunto che un compromesso potrebbe essere «non alzare alcuna tassa e abbassare l’Irpef». Questo sarebbe un compromesso se si stesse discutendo seriamente di introdurre una imposta patrimoniale personale sulla ricchezza o di introdurre una nuova flat tax, ma a prescindere da cosa se ne pensi, la realtà emersa durante le audizioni sulla riforma Irpef delle commissioni congiunte del Senato e della Camera è un’altra: «La proposta di una patrimoniale personale trova poco consenso tra le forze politiche e gli specialisti, al contrario di una revisione delle tasse già esistenti, mentre una flat tax c’è già ed è quella che è stata approvata dal governo giallo verde a favore degli autonomi con il regime forfettario per i ricavi fino a 65mila euro», dice Massimo Bordignon professore della Cattolica intervenuto come esperto durante le audizioni. E la flat tax esistente, frutto dell’anno di governo leghista, secondo Bordignon, «introduce tali vantaggi per queste categorie da sollevare dubbi di incostituzionalità».

Il desiderio di Salvini sarebbe mantenerla e andare incontro alla volontà del governo uscente sul taglio per i redditi medio bassi, senza quindi compensare le mancate entrate con altre imposte. Il piano nazionale di ripresa e resilienza approvato dal consiglio dei ministri uscente prevede già una riforma dell’Irpef per renderla più «equa semplice ed efficiente». Ma non c’è scritto nulla di più e non c’è nessuna risorsa indicata. E l’ufficio parlamentare di bilancio ha calcolato che i fondi stanziati per il periodo 2021-2023 sono insufficienti: su sette-otto miliardi l’anno, tra i 5 e i 6 sono destinati a finanziare l’assegno unico per i figli, il primo tassello di una semplificazione a cui però manca tutto il contorno. Per di più nel documento che ha consegnato a Draghi durante le consultazioni il Partito democratico c’è una riforma fiscale che «realizzi in pieno il principio di progressività» previsto in costituzione. E mentre la politica si divide la maggioranza dei protagonisti delle indagini conoscitive sull’Irpef, l’imposta sui redditi delle persone fisiche che da sola vale il 10,8 per cento del Pil italiano ed è pagata per oltre l’80 per cento da dipendenti e pensionati, concordano sulla diagnosi di cosa non va. Prima di tutto, la complessità di un sistema fiscale stratificato che è andato a danno della progressività e della crescita. Secondo: il carico fiscale che va spostato dal lavoro a patrimonio e consumi.

Lo svuotamento dell’Irpef

A oggi la progressività dell’Irpef è già drasticamente diminuita – col tempo siamo passati da 32 a cinque scaglioni – anche a seguito di continue microriforme. La somma di detrazioni e deduzioni – arrivate a 144 – bonus Renzi e imposte locali hanno comportato «una deformazione della progressività dell’imposta rispetto a quanto stabilito dalle aliquote nominali, determinando un potentissimo disincentivo a guadagnare di più» come ha scritto la Corte dei conti.

A questo si sommano i regimi sostitutivi veri e propri, cioè l’esenzione di alcuni tipo di redditi sottoposti ad altro tipo di tasse, che hanno via via eroso sempre di più la base imponibile dell’Irpef: per un valore di 80 miliardi di euro, quattro finanziarie dell’era pre Covid, secondo i dati presentati dall’Agenzia delle entrate (riferiti al 2018). Le rendite finanziarie, tra interessi, plusvalenze e dividendi, valevano 43,6 miliardi di euro, i redditi derivati dagli affitti che pagano la cedolare secca 15,7 miliardi di euro, i regimi forfettari degli autonomi pre riforma 9,7 miliardi e i redditi fondiari non imponibili incluse le prime case 7,4, e premi produttività e benefit 2,9.

Queste cifre cambiano con la riforma introdotta con la legge di bilancio del 2019 che riguarda il 60 per cento degli autonomi e gli imprenditori individuali delle microimprese e che prevede un regime forfettario al 15 per cento per chi ha ricavi fino a 65mila euro e una imposta sostitutiva al 20 per cento tra i 65mila e i 100mila euro. Secondo l’ufficio parlamentare di bilancio siamo di fronte a una vera e propria «detassazione». Il divario con il lavoratore dipendente è ampio: per chi guadagna 40mila euro, dice Bordignon, si traduce in 5mila euro in più di imposte. Durante le loro audizioni, Agenzia delle entrate, Corte dei conti, e Banca d’Italia, hanno concordato tutte sulla necessità di rivedere il perimetro dell’imponibile Irpef, e il regime per gli autonomi anche se con differenti soluzioni e tutti propongono, come del resto chiedono da anni Ocse, Commissione europea, Fmi, di spostare il carico fiscale dal lavoro.

Soprattutto attraverso una riforma catastale, una incompiuta che mina fortemente l’equità fiscale e che è più facile da attuare rispetto a una tassazione dei beni mobili, ma rivedendo anche altre imposte (la tassa di successione, per esempio, vale in Italia quasi zero). «Non possiamo far cadere tutto sul lavoro dipendente, anche perché la quota di reddito da lavoro sta diminuendo», dice Bordignon, «ma il compromesso è più facile se si riforma l’intero sistema». Il bivio di Draghi sul fisco rischia di essere tutto o niente.

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