Trump vuole riportare negli Stati Uniti le industrie che erano state delocalizzate con la globalizzazione. La re-industrializzazione creerebbe posti di lavoro, aumentando la domanda privata di consumi e investimenti, che compenserebbe l’impatto negativo della riduzione del deficit federale, cresciuto a un livello insostenibile.

Condivisibile o meno, il piano è questo. Nessuno però riesce a capire come l’amministrazione Trump intenda raggiungere gli obiettivi del piano, se le misure che si intendono adottare siano coerenti con questi obiettivi, e quali siano “i danni collaterali” da pagare per realizzare il piano, ammesso che sia realizzabile. Per i mercati l’unica certezza della Trumpeconomics è l’incertezza.

Lo strumento principe di Trump sono le tariffe sulle importazioni, anche se non si capisce ancora se queste servano da tassa sui beni importati e sussidio per le imprese locali per aumentare in modo permanente la competitività di prezzo delle imprese americane; oppure se servono da minaccia per costringere gli altri paesi a un negoziato da cui ottenere un qualche vantaggio di altra natura come, per esempio, l’impegno da parte delle imprese straniere a spostare le produzioni negli Stati Uniti, la riduzione dei requisiti sanitari e ambientali che limitano l’esportazione dei beni agroalimentari americani, una de-regolamentazione dei servizi digitali più favorevole ai colossi tecnologici americani, e altre ancora: in tutti questi casi le tariffe sarebbero un misura temporanea.

I dazi

Se le tariffe diventassero un tratto duraturo dell’economia americana ci sarebbe il serio rischio di stagflazione perché aumenterebbero stabilmente sia l’inflazione, sia i costi di produzione per l’industria americana che così vedrebbe i propri margini erodersi. Se invece le tariffe fossero solo una minaccia temporanea, ci sarebbe comunque il costo economico dell’incertezza su quale siano le vere intenzioni dell’amministrazione Trump.

La politica tariffaria è stata fino ad ora ondivaga per non dire erratica. Si è imposta una tariffa del 25 per cento sulle importazioni dal Canada, poi ridotta al 10 per quelle di petrolio, perché una tariffa più elevata avrebbero reso conveniente l’esportazione del greggio canadese verso altri paesi in concorrenza con gli Stati Uniti (il Canada è un grande produttore di petrolio), oltre a costringere le raffinerie americane situate strategicamente vicino al confine canadese a comprare la materia prima altrove con un forte aggravio dei costi di trasporto. I maggiori produttori di carta hanno gli impianti per la lavorazione dei derivati del legno in Canada, vista la vicinanza ai fornitori di legname, per poi produrre in Messico la carta per gli imballaggi alimentari, che alla fine finiscono nei supermercati americani, facendo così pagare ai consumatori le tariffe sia di Messico che di Canada. Ragioni similari hanno portato alla moratoria della tariffa sulle auto importate da questi due paesi in quanto si tratta di fatto di una tassa sulle imprese americane che hanno in larga parte delocalizzato produzioni e assemblaggio nei due paesi confinanti per gli ovvi vantaggi comparati.

Messico e Canada sono economie fortemente integrate con gli Stati Uniti, e proprio per favorirne l’integrazione hanno firmato in passato un Trattato di libero scambio. Pertanto, o Trump decide di rompere l’integrazione con l’obiettivo della re-industrializzazione, e le barriere tariffarie diventano un tratto permanente dell’economia, a costo di una probabile recessione e maggiore inflazione; oppure le tariffe minacciate, annunciate, imposte, sospese, servono solo a creare un’enorme incertezza che ha comunque un elevato costo economico sia perché le imprese bloccano ogni decisione di investimento in attese di capire in che regime dovranno operare, sia perché si incrina la fiducia dei consumatori di fronte a prospettive di occupazione meno certe. Fiducia che anche i licenziamenti in massa dei dipendenti del governo federale sta contribuendo a minare; e anche questi fonte di incertezza visto che la loro legittimità è già stata contestata in diversi tribunali, e dato origine a forti scontri interni alla stessa amministrazione.

La reciprocità

Il 2 aprile dovrebbe poi entrare in vigore il meccanismo di tariffe “reciproche”, ovvero se un paese impone una tariffa su di un bene americano, quello stesso bene sarà tassato con la medesima tariffa quando viene importato dagli Stati Uniti. Il meccanismo equivale a imporre una tariffa media ponderata per tutti i beni scambiati e i paesi con cui commerciano gli Usa. Un meccanismo di cui nessuno ha un’idea precisa su come funzionerà, ammesso che venga veramente implementato data la sua enorme complessità. Oltre ad essere inefficace secondo una simulazione riportata da Bloomberg, perché equivarrebbe ad aumentare la tariffa media effettiva degli Stati Uniti di appena 1,65 per cento. La ragione è che i beni che gli Stati Uniti esportano verso un paese sono diversi da quelli che importa da quel paese, l’essenza dei vantaggi comparati, e quindi la “reciprocità” metterebbe tariffe su beni che gli Stati Uniti non importerebbero comunque, con un introito risibile per il bilancio federale.

Le tariffe sono anche una fonte di incertezza per la Federal Reserve: nell’attesa di capire quale siano veramente le conseguenze della politica economica di Trump, e quanto duratori i suoi effetti, («stiamo cercando di separare il segnale dal rumore di fondo» le parole del Governatore Powell), è stata costretta ha mettere in attesa ogni decisione sui tassi di interesse, aggiungendo incertezza all’incertezza.

I titoli di stato

Il mercato invece non ha aspettato di capire quale sarà la Trumpeconomics e ha già deciso che il rischio di recessione è aumentato: lo prova la caduta del rendimento sui titoli di stato a 10 anni da 4,80 per cento al momento dell’inaugurazione di Trump, a 4,20, con l’inversione della curva dei tassi (quelli a breve sono più alti di quelli a lunga) che è il barometro più sensibile delle aspettative economiche. Aspettative corroborate da alcuni modelli che già stimano il Pil in discesa nel primo trimestre in forte rallentamento rispetto alla crescita del 2,3 per cento nell’ultima parte del 2024. Così la Borsa ha messo a segno forti ribassi, sfiorando il 10 per cento nel caso dell’indice Nasdaq.

Ormai il principale interrogativo dei mercati è quale sia la caduta della borsa (dove gli americani investono il risparmio previdenziale) e l’aumento dell’inflazione che incrinando la sua popolarità costringerebbero Trump a fare marcia indietro. L’unica certezza è che una caduta del 10 per cento è troppo poco, si da ancora la colpa del caro prezzi a Biden, e il dato sull’occupazione rimane, per ora, confortante. Ma per il mercato le prospettive per l’economia e per gli investimenti volgono al peggio.

L’aumento del debito

In due mesi la Trumpeconomics ha già prodotto tanti danni collaterali, ma anche un beneficio: la svolta a favore di Putin nella guerra in Ucraina ha portato il nuovo governo tedesco, prima ancora di insediarsi formalmente, a rompere col tabu dell’austerità fiscale e del modello di crescita incentrato sulle esportazioni con un massiccio piano di investimenti in infrastrutture e difesa, un settore con un forte impatto sulla produttività per l’elevato tasso di tecnologia e ricerca.

Anticipando un aumento del debito, il mercato ha spinto al rialzo il rendimento sui titoli di stato tedeschi, trascinando all’insù tutti quelli dell’Eurozona. Un movimento forse eccessivo, perché facilmente finanziabile dato il basso rapporto debito/Pil della Germania, ma soprattutto perché il maggior rendimento rispecchia un aumento del tasso di interesse reale che è coerente con un incremento della crescita attesa. E se la Germania da malata d’Europa torna a diventare locomotiva, anche l’Italia ne trae beneficio, come dimostrano i recenti rialzi a Piazza Affari. Sempre naturalmente che Trump non causi una recessione negli Stati Uniti, il crollo del commercio internazionale, e una crisi a Wall Street: per noi, il rischio contagio sarebbe assicurato.

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