È difficile trovare un economista capace di affermare che il crollo attorno ai diecimila punti del più importante indice finanziario globale, il Dow Jones, sia «il segno vitale di un’economia in salute». Ma Jan Eeckhout, professore di Economia all’università Pompeu Fabra di Barcellona, prima all’università della Pennsylvania, ha scritto un libro che costringe a ripensare profondamente le dinamiche economiche degli ultimi 40 anni.

Eeckhout è diventato famoso nel 2017 quando, con il collega Jan De Loecker di Princeton, ha pubblicato un paper sulla crescita del potere di mercato delle imprese, cioè della capacità di imporre prezzi maggiori di quelli di un mercato competitivo. I risultati di quell’articolo erano così sorprendenti da essere citati dal New York Times, dal Wall Street Journal, dall’Economist e dal Financial Times.

Studiando i dati a partire dal 1940 fino al 2014, Eeckhout e De Loecker hanno scoperto che a partire dagli anni Ottanta i ricarichi dei prezzi hanno iniziato a crescere da una media del 21 per cento sopra i costi marginali al 61 per cento. Nello stesso periodo la quota dei profitti è aumentata dall’1 all’8 per cento. Detto in altri termini, le imprese leader di mercato hanno iniziato ad accumulare profitti come mai prima d’ora. Il fenomeno attraversa tutti i settori e, come illustra Eeckhout nel libro The profit paradox, pubblicato negli Stati Uniti nel 2021 e presto anche in Italia (casa editrice Franco Angeli), può spiegare molte dinamiche a cui finora gli economisti non trovavano risposta.

Dal 1980, infatti, i salari sono diventati nel complesso stagnanti, sono diminuiti quelli dei lavori poco qualificati, è calata la partecipazione della forza lavoro, l’innovazione ha rallentato, il numero di nuove imprese si è dimezzato. Il meccanismo, sostiene Eeckhout, si è inceppato per l’aumento del potere di mercato.

È singolare sentire dire da un economista che sarebbe auspicabile un crollo del mercato finanziario.

Io non lo desidero, ho anche azioni e investimenti in un fondo pensione, ma sarebbe una conseguenza necessaria.

Perché necessaria?

Il valore di una azienda sul mercato dei capitali è la somma di futuri profitti. Le aziende quotate hanno un valore sul mercato dei capitali, in base agli asset, al ritorno degli investimenti su quegli asset e al premio che ottengono per il rischio che si prendono. Cosa succede quando le aziende hanno potere di mercato? Con gli stessi asset e con lo stesso rischio, generano maggiori profitti e il mercato dei capitali riflette questo andamento.

Quindi avete trovato una corrispondenza tra l’aumento del valore del mercato finanziario e l’aumento del potere di mercato dovuto alla mancanza di competizione?

Questo è uno dei risultati delle nostre ricerche, sì. Quello che abbiamo trovato è che dagli anni Ottanta il valore di mercato in rapporto alla vendite è triplicato. Il punto è: dove è andata questa crescita dei profitti? Se tu stoppi il potere di mercato allora vedrai anche un declino del valore dei mercati finanziari.

Nel suo libro lei è ottimista sullo sviluppo tecnologico, ma allo stesso tempo descrive una economia malata, con meno start up e meno aziende che si quotano. È una immagine molto diversa dalla idea canonica che abbiamo del recente progresso: abbiamo una percezione lontana dalla realtà?

Sì e no. Da una parte l’economia è cresciuta ovviamente e in media stiamo facendo meglio di prima. L’aspetto negativo è che c’è stato uno slittamento su chi coglie i frutti di questa crescita. Se va a vantaggio molto di più dei profitti le conseguenze non si vedono solo sul mercato azionario o sui salari, ma anche appunto nel numero delle nuove imprese. Quello che voglio dire è che c’è molta crescita ma il modo in cui questa crescita ha effetti sull’economia è probabilmente abbastanza negativo. Questo vuol dire che avremmo potuto avere più crescita di quella che vediamo. E che nonostante risultati straordinari come aver avuto i vaccini contro il Covid in poco tempo durante la pandemia, l’innovazione poteva essere maggiore.

Nel libro lei cita Pfizer tra le tante aziende che hanno registrato questo straordinario aumento dei profitti: anche le società il cui business è dettato dalla ricerca e dallo sviluppo stanno investendo meno?

Noi sappiamo che l’innovazione viene soprattutto dalle piccole aziende. Questo non vuol dire che le grandi non la facciano, ma possono fare innovazione anche contro-produttiva, per esempio attraverso acquisizioni killer o per creare barriere di entrata nei loro mercati. Pfizer non ha inventato i vaccini per il Covid, è stata BionTech a farlo. Noi abbiamo bisogno di Pfizer per le procedure di approvazione e perché ci servono strutture molto sofisticate di produzione.

Ma?

Ma questo non significa che sono stati loro gli innovatori, ci hanno investito il capitale e noi abbiamo bisogno di questo, ma l’innovazione è venuta dalla piccola impresa. Il problema è che dal 1980 il numero delle start up si è dimezzato, i dati mostrano che anche l’innovazione ha rallentato. Alcune grandi imprese come Google, Facebook o Amazon innovano come pazzi, ma se lo compariamo con la perdita dell’innovazione nel complesso, quello che viene fuori è che possiamo fare meglio di così.

Quali sono le conseguenze dell’aumento del potere di mercato su salari e occupazione?

Di solito si pensa all’effetto diretto del potere di mercato sui salari quando siamo in presenza di un monopsonio, il corrispettivo di monopolio per il mercato del lavoro: c’è una sola azienda in città, mettiamo una fabbrica Toyota, e quindi può imporre il salario. La presenza di monopsoni però non è cambiata molto. C’è, invece, un effetto indiretto più ampio che è dato dal combinato disposto di Toyota, Meta, Inditex, e via dicendo, circa 700 aziende a livello globale che contano per circa un terzo del prodotto interno lordo e allora sì che c’è un impatto del potere di mercato su occupazione e salari.

In che senso?

Le imprese con potere di mercato mantengono i prezzi più alti e quindi vendono e producono meno di quello che potrebbero.

Anche aziende come Amazon che sono percepite come molto competitive?

Se Amazon fosse in un mercato competitivo avrebbe prezzi più bassi. L’innovazione tecnologica in questa storia interpreta sia il ruolo dell’eroe sia quello del cattivo. Permette ad Amazon di vendere a prezzi più bassi, ma Amazon può decidere di produrre meno e di caricare i prezzi al consumatore e se produce meno di quello che potrebbe allora la domanda di lavoro cala e se la domanda di lavoro cala i salari stagnano. Questo è l’effetto domino. E infatti è successo per i salari dei lavoratori nella produzione. Per i manager il discorso è diverso, perché loro sono remunerati per creare questi profitti.

Lei parla di polarizzazione del mercato del lavoro: è un fenomeno globale?

Sì, in Europa non si vede molto, perché c’è un alto tasso di ridistribuzione. Che va bene ed è anche una cosa positiva ma non risolve il problema. Le dinamiche sono le stesse. Anche perché non conta molto dove è la proprietà delle aziende, conta dove sono consumatori e utenti. Nel settore tech le aziende sono statunitensi ma gli utenti sono anche in Europa e la Cina, che per ragioni geopolitiche ha le sue aziende tecnologiche, ha problemi simili. In Europa abbiamo società come Inditex, Bayer, le aziende dell’automotive. Il fenomeno dell’aumento del potere di mercato è globale.

Lei tra le tante cose propone regole differenti per le aziende maggiori, cosa pensa del Digital Market Act con cui l’Ue impone regole per le aziende che hanno posizioni dominanti?

Che va in quella direzione, sono contento, ma dobbiamo fare di più. Sono ottimista.

E negli Stati Uniti?

Negli Stati Uniti qualcosa può accadere perché c’è questa strana coalizione tra democratici e repubblicani che per ragioni differenti vogliono intervenire. I repubblicani hanno paura che Facebook e compagnia dominino la politica e vogliono proteggere la politica. La politica è talmente polarizzata che non si sa mai, ma il desiderio c’è.

L’amministrazione Biden ha ripreso lo slogan buy american dal predecessore Trump. Questo è un modo di proteggere i salari o è una risposta sbagliata?

Sbagliata. Buy american restringe la competizione anche di più. Questo non vuol dire che non ci sono effetti negativi dalla globalizzazione, ma questi effetti sono tipici dell’aumento del potere di mercato. E anche le aziende locali sono avvantaggiate dalla globalizzazione. La globalizzazione per me è una forma di cambiamento tecnologico e come il cambiamento tecnologico, di cui abbiamo bisogno, aumenta il potere di mercato. La risposta è regolare i mercati non diminuire ancora la concorrenza.

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