Una svalutazione così forte dell’euro in così poco tempo evidenzia uno squilibrio finanziario che trova le proprie radici nelle differenti prospettive economiche di Stati Uniti e Unione europea
L’euro ha chiuso venerdì 10 gennaio a 1,02 (i dollari necessari per comperare un euro), essendosi deprezzato del 9 per cento in poco più di tre mesi, e c’è chi già prevede la parità tra euro e dollaro: non avrebbe alcun significato economico, se non psicologico; né sarebbe la prima volta visto che a settembre del 2022 il dollaro era sceso sotto la parità, a 0,96.
Ma una svalutazione dell’euro così forte in così poco tempo evidenzia uno squilibrio finanziario che trova le proprie radici nelle differenti prospettive economiche di Stati Uniti e Unione europea. E suggerisce anche un’analisi di più lungo periodo sul primo quarto di secolo della moneta unica per comprendere quale sia stato l’impatto dell’unione monetaria sul sistema finanziario internazionale, e in che misura le aspettative sul ruolo dell’euro siano state soddisfatte.
Le cause
Per capire le ragioni dell’apprezzamento del dollaro rispetto all’euro degli ultimi mesi bisogna guardare agli Stati Uniti e non all’Europa, e già questa è un’importante indicazione: economia e mercati americani esercitano ancora un’influenza dominante sugli equilibri finanziari nel resto del mondo, come se ci fosse una forza gravitazionale che attrae il sistema internazionale verso quello degli Stati Uniti. Anche la Cina, infatti, è dovuta intervenire per frenare il deprezzamento del renminbi, arrivato a 7,33 Yuan per dollaro, un livello mai toccato dal 2008 al tempo della grande crisi finanziaria.
La recente fase di apprezzamento del dollaro da inizio ottobre sembrerebbe indicare che la ragione principale stia nella vittoria di Donald Trump alle elezioni presidenziali a inizio novembre, e nelle dirompenti dichiarazioni su quale sarà la politica della sua amministrazione. In parte è così, ma solo in parte. Le tariffe che Trump intende imporre sono inflazionistiche perché aumentano i prezzi di tutto quanto viene importato, e la promessa di tagliare le imposte aggrava il deficit federale: più inflazione e più debito pubblico però causano un aumento dei rendimenti richiesti dagli investitori per detenere i titoli di stato, che a sua volta attrae capitali dall’estero, apprezzando il dollaro.
Ma il fattore Trump si innesta su una dinamica economica americana molto differente da quella europea e cinese, enfatizzandola. Gli Stati Uniti stanno infatti crescendo a un tasso superiore al trend, col Pil trainato dai consumi privati e dagli investimenti, avendo creato 256.000 nuovi posti di lavoro a dicembre (e 2,2 milioni nell’intero 2024), con la disoccupazione al 4,1 per cento, al di sotto della media storica, e questo nonostante la politica monetaria restrittiva degli ultimi anni per abbattere l’inflazione.
La crescita dei prezzi al consumo (comunque la si misuri) si sta assestando al di sopra del 2 per cento obiettivo della Federal Reserve, ma ci si attende ormai che si stabilizzi tra il 2,5 e il 3, precludendo ogni significativa riduzione del tasso sui Federal Funds (il tasso sulle transazioni interbancarie per le riserve presso la Banca Centrale), almeno per gran parte del 2025.
I tassi
Tuttavia, il maggior aumento durante questi ultimi mesi di apprezzamento del dollaro lo si è avuto nei tassi a lungo termine americani, che la Federal Reserve non controlla, con il rendimento del titolo di stato a 10 anni salito di 1 punto percentuale al 4,7 per cento: un movimento dettato non dalle aspettative di inflazione, ma interamente dal tasso reale che si è portato oltre il 2 per cento come evidenziato dai titoli indicizzati.
Gli elevati tassi di interesse americani, sia quelli a breve determinati dalla Fed, sia quelli a lungo termine sul debito pubblico, sono certamente causati dal timore che il mercato avrà difficoltà ad assorbire la mole imponente di nuovo debito pubblico creato dal deficit federale (e che il taglio delle tasse di Trump aumenterà ulteriormente), e dall’inflazione strutturalmente più elevata del 2 per cento (che le tariffe di Trump rischiano di aumentare); ma è l’elevato tasso reale, unitamente a un’economia che è prevista crescere a due e volte e mezzo più rapidamente dell’Europa, ad attirare i capitali ed apprezzare il dollaro. Più che la politica monetaria, è dunque l’economia reale a determinare oggi i tassi di cambio: la debolezza dell’euro è pertanto l’immagine speculare della debolezza dell’economia europea.
I costi per l’Europa
L’euro debole potrebbe sembrare un vantaggio netto per l’Europa, che vanta un avanzo nella bilancia commerciale soprattutto grazie a Germania e Italia, perché premia le nostre esportazioni e in parte neutralizzerà le tariffe di Trump. Ma ha un costo in termini di inflazione importata, soprattutto a causa del prezzo delle fonti energetiche e delle materie prime da cui dipende l’Europa, e che viene espresso in dollari: ma una maggiore inflazione impedisce alla Bce di ridurre i tassi rapidamente come forse la debole crescita economica richiederebbe.
Il maggior costo del deprezzamento dell’euro è però dovuto ai movimenti di capitale, a favore degli Stati Uniti: i minori investimenti nei mercati azionari europei aumentano infatti il costo del capitale delle aziende e riduce la capacità di quotarsi e raccogliere capitali di rischio; e l’attrattiva dei titoli di stato americani riduce la domanda per quelli europei aumentandone il rendimento, ceteris paribus. La dimensione, liquidità e sofisticazione del mercato finanziario americano, che agisce come fosse una forza di gravità rispetto agli altri mercati, costituisce quindi un costo reale per il resto del mondo.
I tassi di cambio si stanno deprezzando proprio nei paesi, Europa e Cina, con un forte avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti, in forte disavanzo, ma col dollaro che si apprezza: ovvero i cambi vanno nella direzione opposta a quella che sarebbe necessaria per ridurre gli squilibri nel commercio con l’estero.
La ragione sta nella debolezza dei consumi e investimenti privati in Europa e Cina, che si trovano quindi a dover esportare l’eccesso della loro capacità produttiva per poter crescere; l’opposto degli Stati Uniti dove la domanda di consumi e investimenti eccede l’offerta dei produttori nazionali. È questo il vero squilibrio fondamentale che il dollaro forte evidenzia, e che può di diventare una fonte di rischio sistemico per le economie del mondo; né lo risolvono le guerre commerciali.
Trend al ribasso
Tornando agli albori della moneta unica, dopo un suo iniziale deprezzamento nei confronti della valuta americana (da 1,17 dollari a 0,86), ha fatto seguito una forte rivalutazione fino al picco di 1,58 nel 2008 al tempo del fallimento di Lehman Brothers. Da allora però l’euro ha seguito un trend al ribasso (ovvero il dollaro in media si è apprezzato) pur con forti oscillazioni, ma dove il picco di rivalutazione ogni volta era inferiore a quello precedente: dall’1,58 nel 2008, a 1,49 nel 2009, 1,48 nel 2011, 1,38 nel 2014, 1,25 nel 2018, 1,23 nel 2020 fino all’1,12 dello scorso ottobre e l’1,02 odierno, 13 per cento in meno di quanto valeva al momento della sua costituzione il 2 gennaio 1999.
Un trend simile di lungo periodo non può essere spiegato solo dai differenziali di inflazione, di costo del lavoro per unità di prodotto o di crescita del Pil, ma riflette la tendenza dei capitali ad andare in direzione dei mercati finanziari americani. La creazione dell’euro aveva anche l’obiettivo di far nascere una moneta che potesse competere con il dollaro nel sistema finanziario internazionale: obiettivo fallito vista la sua tendenza ad indebolirsi.
Abbiamo infatti creato la moneta unica, ma non un unico mercato europeo dei capitali e un sistema bancario unico. Borse, banche commerciali e di investimento, investitori istituzionali, società di asset management, private equity e venture capital, normative e regolamentazioni, mercato dei derivati, sistemi di clearing, tutto è frammentato in Europa secondo i confini nazionali, col risultato che abbiamo un sistema finanziario incapace di mobilitare i capitali in misura e qualità tale da poter competere per quantità ed efficienza con quello americano. Ma non ci può essere crescita senza un mercato efficiente che la finanzi.
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