Sarà pure vero, come dicono in molti, che i renziani sono allo sbando, delusi dai sondaggi che li inchiodano a una dimensione lilliput, disorientati dai disinvolti viaggi arabi del capo, pronti a saltare sul carro del Pd dal quale erano scesi con esuberante sicumera. Non a tutti, però, tocca la stessa sorte.

 Prendete Claudio De Vincenti, per esempio. Il pendolo della sua carriera che dalle aule di università lo aveva portato alla politica e al governo sembrava avviato verso il tragitto inverso, di nuovo direzione atenei e alti studi di economia. E invece no. A 73 anni, l'età che per i comuni mortali equivale a pensione, gli viene attribuito un incarico di primaria importanza, presidente di Aeroporti di Roma dei Benetton al posto di Antonio Catricalà, altro professore emerito, morto suicida un mese fa.

Aeroporti di Roma vuol dire Ciampino e Fiumicino, lo scalo più importante d'Italia, l'hub scelto da Alitalia, la grande infrastruttura che per almeno un decennio i Benetton avrebbero voluto sviluppare a modo loro. Raddoppiandola dove non era possibile, in un'area di loro proprietà, ma vincolata dallo stato perché dichiarata un quarto di secolo fa riserva naturale.

Di recente il Tar del Lazio ha segnato un punto fermo, con una sentenza che sembra la pietra tombale su quel pretenzioso e faraonico progetto (10 miliardi di euro circa di valore). Riportarlo in auge appare difficile per chiunque, anche se chi ha seguito tutta la lunga e complicata partita sa che i colpi di scena sono sempre dietro l'angolo.

L’uomo adatto

De Vincenti sembra proprio l'uomo adatto per le missioni complicate grazie al suo eclettismo. Alla fine del secolo passato, quando lo indicavano come un dalemiano, in qualità di coordinatore del Nars del ministero del Tesoro fu tra i primi regolatori pubblici di autostrade e aeroporti, proprio i business dei suoi nuovi datori di lavoro. Anni più tardi si dette da fare per l’ingresso nella flotta di stato dell'Airbus A340-500, quello che sarebbe diventato famoso come l’Air Force Renzi. De Vincenti era il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più stretto collaboratore di Matteo Renzi capo del governo e dagli uffici di palazzo Chigi l'11 settembre 2015 vergò una sorprendente letterina indirizzata alla ministra della Difesa e collega di partito Pd, Roberta Pinotti, per indurla a sponsorizzare l'aereo renziano. Una missiva che conteneva una serie di sorprendenti inesattezze.

De Vincenti sosteneva che andava introdotto in flotta l'A340-500 – fornito allo stato italiano dalla compagnia Etihad del'emiro di Abu Dhabi, allora socia di Alitalia - perché era più moderno degli A319 della flotta di Stato ritenuti vecchi e costosi. Ma non era vero: i 3 Airbus A319 della flotta statale erano stati acquisiti rispettivamente nel 2001, 2002 e 2005 e avevano all'incirca la stessa età dell'aereo di cui si era incapricciato Renzi che è del 2006.

Una differenza c'era, ma deponeva contro l'aereo di Renzi, perché mentre quest'ultimo era noto agli addetti ai lavori come un bidone succhiacarburante prodotto da Airbus in appena 41 esemplari, gli A319 sono invece jet ottimi, venduti con successo in tutto il mondo.

La lettera per l’aereo di Renzi

De Vincenti scriveva, inoltre, che l'aereo renziano era più sicuro per le comunicazioni, anche se anche questa affermazione è stata poi contestata e smontata dagli esperti. Infine l'allora braccio destro di Renzi si inerpicava sul sentiero impervio della valutazione dei costi scrivendo che ci sarebbero voluti 200/300 milioni di euro per acquistare l'Airbus A340-500 di Renzi, ignorando che nello stesso periodo sulla piazza di Londra un aereo gemello veniva trattato dalle società di lessor al prezzo di 7 milioni di dollari, 31 volte di meno.

Alla fine l'aereo di Renzi entrò a far parte della flotta di stato grazie anche alle raccomandazioni di De Vincenti e per configurarlo in base agli esigenti desideri del capo del governo fu avviata una costosa operazione di riconfigurazione che prevedeva tra l'altro sale riunioni e camere più ampie, servizi igienici più ricercati con una spesa prevista di un'altra ventina di milioni di euro.

La riconfigurazione di fatto non è stata eseguita perché dopo il referendum costituzionale perso Renzi dovette lasciare palazzo Chigi e l'Air Force seguì la sua sorte. Per anni l'inutile jet è stato parcheggiato prima sui prati dell'aeroporto di Fiumicino a prendere ruggine, poi ricoverato in un hangar Alitalia dove tuttora giace.

Tra la fine dell'estate e l'autunno del 2018 il manager aeronautico Gaetano Intrieri, diventato nel frattempo consulente dell'allora ministro 5 Stelle dei Trasporti, Danilo Toninelli, dati alla mano dimostrò che il contratto di leasing riconosciuto a Etihad dallo stato italiano per l'aereo di Renzi era 61 volte superiore ai prezzi di mercato. Di lì a poco Intrieri fu bersagliato da una selva di articoli negativi e costretto alle dimissioni. Sulla vicenda dell'aereo di Renzi indaga da diversi mesi la Procura della Repubblica di Civitavecchia con un'inchiesta che ha preso spunto da quella più generale su Alitalia nel periodo «arabo», cioè quando fu in pratica guidata dai manager voluti dall'emiro di Abu Dhabi.

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