La protagonista di questa storia è una signora di oltre cinquant’anni che chiameremo C.P., finita nel tritacarne della vicenda Alitalia in tutti i suoi vari momenti, dai tempi della fusione con Air One, poi dei Capitani coraggiosi fino agli arabi e allo schianto finale.

Oltre al danno di aver dovuto patire una vita sulle montagne russe tra licenziamenti, tribunali del lavoro, riassunzioni, casse integrazioni etc.. alcuni mesi fa non è stata assunta in Ita Airways, la compagnia che dal 15 ottobre 2021 ha preso il posto di Alitalia. E ora, come premio finale, l’Inps le chiede oltre 40 mila euro. L’istituto di previdenza pretende la restituzione delle somme da lei ricevute sotto forma di ammortizzatori sociali dopo che era stata licenziata.

L’unica colpa di C.P. è di aver lavorato con diligenza quando e finché le è stato consentito, ma di averlo fatto in un momento e in un posto sbagliati. Il momento è quello in cui i diritti dei lavoratori sono in caduta libera, il posto sbagliato è Alitalia e tutti i suoi derivati, un’azienda poi finita a gambe all’aria.

Il caso di C.P. non è isolato, nelle sue stesse condizioni si trovano migliaia di lavoratori licenziati in tutta Italia, poi magari reintegrati dopo anni grazie a sentenze dei tribunali del lavoro e che ora si vedono piovere sulla testa richieste astronomiche di rimborsi da parte dell’Inps.

Tutto ciò avviene a scoppio ritardato per effetto della legge Fornero, la famosa riforma di una decina d’anni fa, ai tempi del governo di Mario Monti.

La storia di C.P.

C.P. è stata licenziata nel 2014 da Alitalia che allora si chiamava Cai, è stata reintegrata in Alitalia Sai in amministrazione straordinaria e ora che Alitalia non c’è più non è stata voluta da Ita. C.P. è in cassa integrazione straordinaria, non naviga nell’oro e non sa dove prendere i soldi per pagare il conto.

Era stata assunta in Air One nel 2003, prelevata dal collocamento speciale riservato agli invalidi, sei anni dopo era entrata in Alitalia Cai con un contratto a tempo indeterminato part time, 5 ore al giorno, 25 ore alla settimana e uno stipendio di circa 1.100 euro netti al mese. A novembre 2014 è stata licenziata da Alitalia Cai nonostante fosse tutelata dalla legge sui minimi obbligatori del personale disabile.

C.P. si è rivolta al tribunale di Civitavecchia, competente per le faccende Alitalia. Nel frattempo è stata posta in mobilità per 2 anni con una retribuzione integrata dal Fondo di solidarietà del trasporto aereo che fa capo all’Inps pari a circa 850 euro netti al mese, poi ai primi 2 anni se ne aggiungono altri 2. Il tribunale di Civitavecchia pur riconoscendo l’illegittimità del licenziamento ha dichiarato nel 2015 risolto il rapporto di lavoro.

Alitalia è stata condannata al pagamento di un’indennità di 12 mesi pari a 15.627 euro netti a favore di C.P., ma il legale di C.P. si è opposto. Solo 4 anni dopo, nel 2019, arriva la sentenza di primo grado poi confermata in appello: C.P. deve essere reintegrata al suo posto di lavoro.

C.P. torna a lavorare e ci resta fino a settembre 2021, quando Ita prende il posto di Alitalia. C.P. ora è di nuovo senza lavoro e come un fulmine a ciel sereno le piove in testa la richiesta dell’Inps che pretende di essere rimborsato di quanto le è stato versato sotto forma di ammortizzatori sociali per 4 anni, cioè dal momento in cui è stata licenziata al momento in cui è stata reintegrata al lavoro.

Il ragionamento dell’Inps è questo: siccome il reintegro scatta dal giorno in cui tu C.P. sei stata licenziata, se ti fosse riconosciuto anche il pagamento degli ammortizzatori è come se tu fossi pagata due volte.

Doppia retribuzione?

Il punto, però, è che l’impostazione dell’Inps aveva una sua logica prima della riforma Fornero, ora no. Prima della Fornero di fronte a vicende come quella di C.P., in seguito al reintegro l’azienda doveva farsi carico del pagamento di tutti gli stipendi arretrati dal momento del licenziamento fino alla reintegrazione al lavoro.

In quei casi era inutile e anche ingiusto che il lavoratore fosse pagato pure dallo stato. Ma oggi non è più così: nel caso in cui il licenziamento venga ritenuto illegittimo il datore di lavoro tutt’al più è tenuto a pagare una sorta di penale, comunque mai superiore a 12 mensilità.

Se poi dopo anni e anni arriva la sentenza di reintegro al lavoro, sul lavoratore piove la mazzata del rimborso degli ammortizzatori percepiti. Il caso di C.P. è emblematico: dopo aver preso 1 dall’Inps ora deve ridargli quasi quattro. C.P. si è rivolta di nuovo ai giudici, che però hanno dato ragione all’Inps.

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