C’è un’Italia in attesa, fotografata nel rapporto sulla stabilità finanziaria pubblicato ieri dalla Banca d’Italia. In attesa di sapere se la sua impresa fallirà, se pagherà il mutuo per la casa, se verrà licenziata.

I mutui sospesi

Le famiglie italiane sono più indebitate di prima, ma allo stesso tempo hanno smesso di indebitarsi come prima: semplicemente, nell’incertezza non hanno fatto ricorso al credito come in tempi normali, hanno cercato di parare i colpi. A settembre meno di quattro famiglie su cento avevano intenzione di chiedere un prestito per scopi di consumo. Il risultato di questi comportamenti è che la percentuale di indebitamento rispetto all’anno passato è cresciuta di poco: dal 63,2 di giugno 2020 al 61,9 di fine dell’anno passato.

Ma dietro a queste cifre c’è anche un pezzo di Italia che i debiti li ha solo sospesi. In tre mesi, da marzo a giugno, si legge nel rapporto, ci sono state 90mila domande di adesione alla moratoria pubblica sui mutui per l’abitazione principale, quella per cui i cittadini possono ricorrere a un fondo di solidarietà in caso di cessazione di rapporti di lavoro o di rappresentanza commerciale e altri rapporti di collaborazione, uno dei pochi strumenti che equipara lavoro dipendente a lavoro autonomo: più di un terzo delle sospensioni dei mutui viene dagli autonomi.

In totale le richieste sono pari a «quasi 17 volte quelle attivate nel 2011 durante la crisi dei debiti sovrani». Ma alla moratoria pubblica che si può estendere fino a diciotto mesi vanno aggiunte le cifre della moratoria privata: altri 430 mila contratti di affitto. Banca d’Italia stima che la maggioranza delle sospensioni, il 60 per cento, andrà a scadenza entro la primavera, proprio quando potrebbe finire anche il blocco dei licenziamenti.

I rischi per le imprese

La ripresa di questa estate ha superato le attese, ma resta l’incertezza. Il quadro macroeconomico è quello che comporta più rischi, anche se i bassi di interessi hanno profondamente cambiato lo scenario – con lo spread ridotto a 120 punti base dai 280 di marzo, i titoli di debito fino a tre anni con rendimento negativo e la quota di investitori stranieri che compra il nostro debito in crescita. Ma mentre i mercati inseguono le promesse del vaccino, l’economia reale alla fine dell’anno fa i bilanci. Poco più della metà delle imprese prevede di chiudere l’anno in utile, ma un terzo già preannuncia un calo degli investimenti per il futuro.

Gli interventi messi in campo finora hanno tamponato la crisi, impedendo che si perdessero 600mila posti di lavoro. Ma per le aziende si faranno i conti alla fine dell’anno. Al termine del 2020, calcola Banca d’Italia, la quota di società di capitali in deficit patrimoniale, cioè sotto capitalizzata, dovrebbe raggiungere il 12 per cento. Prima della crisi pandemica era il 6,9 per cento, una proporzione alta rispetto agli altri paesi e accumulata da anni di stagnazione e crescita asfittica made in Italy.

Senza le misure di sostegno introdotte finora, la percentuale sarebbe arrivata addirittura al 13,8 per cento. Insomma: gli interventi messi in campo hanno protetto l’1,8 per cento delle aziende, anche se le stime non comprendono ancora i decreti ristori e ristori bis. Secondo i calcoli di Bankitalia, tra cassa integrazione, sospensione dei debiti e posticipo delle tasse e contributi a fondo perduto, le aziende in deficit di liquidità si sono ridotte da 142 mila a 100mila. Se si indebitassero usando le garanzie offerte, il numero potrebbe calare ancora. Ma se è semplice suggerire di indebitarsi, è molto più complicato farlo non avendo certezza degli aiuti e delle prospettive future.

Il dato che potrebbe stupire è quello sui fallimenti delle imprese. «Il numero di imprese in uscita dal mercato si è molto ridotto rispetto allo scorso anno», dice il rapporto, ma questo semplicemente perché i fallimenti sono stati bloccati col decreto liquidità. I nuovi calcoli elaborati dalla Banca d’Italia su un campione di 255mila imprese dicono che la probabilità media di insolvenza è salita tra il 3 e il 4,4 per cento.

Il settore dove potrebbero concentrarsi i maggiori fallimenti a dicembre è quello dell’alloggio e della ristorazione: raggiunge il picco del sei per cento di probabilità di insolvenza. Ma tra le attività artistiche e intrattenimento un’impresa su venti rischia di fallire a dicembre. A febbraio i settori più a rischio sono costruzioni e immobiliare che potrebbero essere i termometri della crisi sugli altri comparti.

Nel modello di Banca d’Italia le aziende che hanno una probabilità di default superiore al cinque per cento salirebbero fino al 16,4 per cento del totale. Le proiezioni prendono in esame anche il rischio per la stabilità finanziaria e calcolano la quota di debito in mano alle imprese più vulnerabili. Ebbene, alla fine del 2021, cioè tra oltre un anno, la quota di debito di queste imprese cala al 29 per cento, ma rimane comunque superiore rispetto al 2019. Inoltre in caso di scenario avverso, la quota potrebbe raggiungere il 32 per cento.

Se le imprese sane ma illiquide possono essere salvate dagli interventi realizzati finora, dice Banca d’Italia, il loro debito «potrebbe non avere natura temporanea e pesare, anche nel medio periodo, sulla capacità delle società di sostenere il servizio del debito, di investire e di competere». Si discute di Natale e cenoni, bisognerebbe prepararsi all’Italia che verrà a primavera.

 

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