Archiviata la lotta tra repubblicani e democratici al Congresso sui limiti all’indebitamento nazionale, il debito pubblico americano continua a crescere e ha raggiunto livelli mai toccati prima. L’America beneficia del suo ruolo centrale nell'economia globale, grazie al dollaro valuta dominante, eppure il castello di carte rappresentato dai titoli di stato rimane una debolezza intrinseca con valenze geopolitiche e finanziarie formidabili, giunto com’è alla stratosferica cifra – difficile persino da concettualizzare – di 31,8 trilioni di dollari (95.000 per abitante).

Rischio sistemico gestito con incoscienza fiscale senza uguali, e confermato dalla notizia che subito dopo l’accordo congressuale sul “tetto”, in un solo giorno il disavanzo è schizzato di altri 351 miliardi. A ben vedere la diatriba politica sul “tetto”, che per settimane ha nevrotizzato i mercati, è una “farsa” ricorrente che si presenta ogni due anni. Lo ha spiegato Ray Dalio, leggendario gestore dell’hedge fund Bridgewater, dato che dal 1960 il Congresso ha agito ben 78 volte per alzare o estendere le soglie di indebitamento: «È una farsa che funziona come un gruppo di alcolisti che scrivono leggi per far rispettare i limiti al consumo di alcol».

In questo scenario i mercati si preparano a nuove fasi di volatilità, visto che oltre un trilione di Treasury sono in via di emissione da qui a fine settembre, secondo gli analisti di JPMorgan Chase. L’obbligazionario, di cui i titoli di stato fanno parte, è il mercato più liquido al mondo con un valore totale di 133 trilioni di dollari (tre volte il mercato azionario) e volumi di trading molto alti in cui i T-Bond fanno la parte del leone.

Le prossime emissioni

Le prossime massicce emissioni americane potrebbero quindi provocare problemi imprevisti e scarsa liquidità nel sistema, e se ciò avvenisse i mercati ne sarebbero scossi. Sui bond grava come ovvio il fattore inflazione, ai massimi sia negli Stati Uniti sia in Europa per le politiche monetarie restrittive di Fed e Bce e il conseguente forte rialzo dei tassi d’interesse, dopo gli anni irresponsabili di tassi a zero o sottozero.

Washington, secondo le ultime stime, nei prossimi mesi potrebbe essere costretta a indebitarsi piazzando Treasury a un tasso che si avvicinerà al 6 per cento mentre appena un anno e mezzo fa era allo 0,1 per cento, un aumento di circa 60 volte. È probabile che la spesa totale per interessi finisca per superare i mille miliardi l’anno e sorpassi la previdenza sociale come voce più importante del bilancio federale.

Non secondario poi è il fattore geopolitico. Considerata l’entità delle prossime emissioni, non vanno esclusi cambi di strategia da parte dei maggiori creditori dell’America, Cina in testa. Le relazioni tra Washington e Pechino sono ai minimi assoluti e le due superpotenze, per iniziativa unilaterale americana, guerreggiano praticamente su tutto: commercio, tecnologia, spionaggio, Taiwan, conflitto in Ucraina.

Dato il pessimo clima bilaterale tra i due nemici, già da tempo la Cina è venditrice netta di titoli del Tesoro Usa in portafoglio (i cui prezzi sono in netto calo). Negli ultimi 10 anni gli uomini di Xi Jinping hanno ridotto del 34,1 per cento il possesso di Treasury ma quasi la metà – un taglio del 16,6 per cento – è avvenuta nel 2022, anno in cui il neo-maccartismo anticinese ha raggiunto l’apice. Non siamo ancora all’utilizzo dei bond come arma di ricatto e minaccia nella guerra in corso, ma poco ci manca.

Il rischio cinese 

Nel dettaglio, le scorte di titoli sovrani statunitensi in mano a Pechino ammontavano a fine dicembre 2022 a 862,3 miliardi di dollari, il minimo dal maggio 2010, secondo i dati di Refinitiv, e cioè una riduzione di 173,85 miliardi sull’anno prima. Gli ottimisti dicono che sebbene la vendita di bond Usa da parte dei cinesi sollevi questioni geopolitiche, il Dragone lo fa principalmente per l’aumento dei tassi. In nome della diversificazione delle proprie riserve in valuta estera, la Cina starebbe modificando la composizione delle attività in dollari piuttosto che ridurre l’esposizione al biglietto verde, investendo su obbligazioni diverse, cioè emissioni di altre agenzie statunitensi.

La Cina rimane il secondo detentore estero del debito americano dopo il Giappone, che a fine gennaio 2023 ne possedeva 1,104 trilioni. Il Regno Unito è il terzo maggior creditore, con oltre 655 miliardi. L’Ue con 13 paesi costituisce il blocco geografico più forte seguito dall’Asia-Pacifico. L’Italia è al 33° posto, con 39 miliardi. Le minuscole Isole Cayman hanno T-bond per il sorprendente importo di 284 miliardi, ma solo per il fatto che centinaia di hedge fund sono domiciliati lì e canalizzano un diluvio di soldi off-shore da tutto il mondo. Con altri tre piccoli paesi – Bermuda, Bahamas e Lussemburgo – ben 741 miliardi di titoli sovrani dell’America sono parcheggiati in paradisi fiscali.

In realtà i fattori che sostengono la domanda di Treasury e la “flessibilità” della politica fiscale americana sono destinati a durare. Nella ricerca di asset sicuri, gli investitori globali hanno poche altre scelte. La richiesta di titoli quindi non calerà. In definitiva, la spaventosa montagna del debito Usa è sostenuta dal dollaro, dal potere di signoraggio degli Stati Uniti e dalla capacità di attrarre capitali.

Tuttavia, anche se l’America ha appena evitato un default, rimane lo stigma relativo ai negoziati politici all’undicesima ora sul “tetto” del disavanzo, diventati una caratteristica quasi regolare, mentre le agenzie di rating S&P, Moody’s e Fitch fanno capire che la credibilità della superpotenza non può autoalimentarsi grazie alla stampa continua di dollari.

«Questa grande nazione per oltre mezzo secolo è vissuta al di sopra delle proprie risorse e sulle spalle del resto del mondo» afferma l’ex vicedirettore di Banca d’Italia Pierluigi Ciocca. Corollario: sottovalutare gli effetti della geopolitica sul debito americano – cioè come sarà trattato il creditore/competitore Cina – sarebbe un pericoloso errore per l’amministrazione Biden.

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