Oggi la Commissione di inchiesta sulle banche si riunisce per l’audizione del presidente della Consob, Paolo Savona, l’uomo che guida l’authority che deve tutelare gli investitori. Nata per proseguire e superare il lavoro dalla prima commissione di inchiesta, quella delle crisi di Banca Marche, Etruria, Carichieti e Carife, delle due venete e di Mps, questa seconda commissione dovrebbe occuparsi del settore del credito “ad ampio raggio”, come si legge nel disegno di legge che l’ha istituita. Cioè, sulla carta, affrontare la questione della regolamentazione, il ruolo delle authority, i problemi dell’Unione bancaria. Perciò una delle questioni più urgenti che i commissari dovrebbero trattare è quella sollevata dal capo della vigilanza della Bce, Andrea Enria: la mancanza di regole per la scelta e l’eventuale rimozione dei banchieri. Un unicum italiano che indebolisce la vigilanza e la difesa dei risparmiatori.

Il 23 giugno, rispondendo a una intervista del Sole 24 Ore, Enria è stato chiarissimo: “C’è grande preoccupazione perché l’ordinamento italiano non è in linea con le regole europee ormai da molti anni e manca una base solida per assicurare la qualità dei consigli delle banche, un presidio essenziale per la sana e prudente gestione. Questo complica l’esecuzione dei nostri compiti ed è una lacuna che dev’essere colmata in fretta”. Parole gravi, ma che non hanno provocato reazioni.

Il rapporto annuale della Bce sulle attività di vigilanza aveva già sottolineato l’aumento dei rischi legati al cattivo management degli istituti di credito: “La governance rimane un’area a rischio di particolare preoccupazione di vigilanza a causa di punteggi in peggioramento determinati dalla scarsa efficacia degli organi di gestione”. La recessione provocata dalla pandemia, destinata ad accrescere il ruolo essenziale del settore del credito e ad aumentare i livelli di debito e di crediti deteriorati, può solo aggravare il problema.

Letizia Moratti, presidente di Ubi Banca.

La sorveglianza sulla qualità della governance è complicata dal fatto che i diversi Paesi dell’area euro hanno tradotto la direttiva Ue “sull’accesso all’attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale” (la Capital requirements directive 4 del 2013) in maniera differente. Già a marzo, un paper per il Parlamento europeo redatto dal professore della Bocconi Andrea Resti spiegava che “le differenze tra le norme nazionali sono irrazionali e contrarie al principio della parità di condizioni. Mentre generano incertezza e rendono la supervisione più complessa”. Ma in Italia i rischi sono ancora più alti, perché la normativa non c’è proprio.

Il governo Renzi ha recepito la direttiva europea con il decreto legislativo del 16 novembre 2015 che ha modificato il testo unico bancario, demandando però la regolamentazione dei requisiti dei banchieri a un altro decreto. Da allora sono nati e caduti altri due governi, c’è stato il fallimento delle banche venete, la crisi di Carige e quella della popolare di Bari, e i rinnovi in serie dei board di Banco Bpm, Mps, Ubi banca e ancora Mps. La discussione sulle banche è passata dagli scontri sul bail in a quelli tutti interni alla nuova maggioranza giallorossa sul destino pubblico o privato del Monte dei Paschi. Ma il regolamento non c’è ancora.

Nel 2017 il ministero dell’Economia di Pier Carlo Padoan ha lanciato una consultazione pubblica. A febbraio del 2020 il nuovo ministro, Roberto Gualtieri, che da ex presidente della commissione affari economici del Parlamento europeo conosce bene la materia, aveva finalmente inviato il provvedimento a Consob e Banca d’Italia, secondo la ricostruzione di Repubblica. Eppure qualcosa o qualcuno lo ha nuovamente bloccato, facendo passare un’altra stagione di rinnovo dei consigli di amministrazione.

Nel maggio del 2018 la vigilanza bancaria europea ha anche aggiornato le sue linee guida sui requisiti di professionalità e onorabilità, in accordo con gli orientamenti dell’Eba, l’autorità bancaria europea, e dell’Esma, l’autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati.

I criteri suggeriti per la valutazione della governance sono cinque: esperienza, onorabilità, conflitti di interesse e indipendenza di giudizio, disponibilità di tempo e adeguatezza complessiva. E per ognuno sono indicati gli elementi da prendere in considerazione, il numero di anni di esperienza in un settore, la tipologia di procedimenti giudiziari o amministrativi eventualmente a carico del dirigente, le diverse tipologie di conflitti di interesse, da quello personale a quello finanziario fino a quello politico. Ma l’Italia, il Paese che da cinque anni discute di banche, non decide.

L’esecutivo non ha ancora messo nero su bianco se sia tollerabile avere alla guida di una banca un imprenditore del vino come Gianni Zonin, per quasi vent’anni presidente della Popolare di Vicenza e ora imputato per aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza nel processo sul crack dell’istituto, o un clan famigliare come quello che governava la Popolare di Bari. O se sia accettabile, per venire ai casi su cui il decreto avrebbe potuto avere effetti concreti, mantenere come amministratore delegato un dirigente sotto processo come Victor Massiah che, seppure indagato per ostacolo alla vigilanza e indebita influenza sull’assemblea di Ubi Banca del 2013, è ancora alla guida dell’istituto. O, sempre per fermarci a Bergamo e Brescia, se sia ammissibile la nomina di un presidente come Letizia Moratti, condannata dalla Corte dei conti per danno erariale per le consulenze esterne e le assunzioni di personale non qualificato quando era sindaco di Milano.

Una filiale di Banca Carige.

La questione è continuamente rinviata e continuamente torna all’ordine del giorno. Il 26 giugno, tre giorni dopo l’intervista di Enria, il vicepresidente e presidente del comitato rischi di Carige, Angelo Barbarulo, si è dimesso. La Stampa ha poi rivelato che la Bce non lo aveva ritenuto adeguato al ruolo per i trascorsi da dirigente in Mps. E a sceglierlo era stato il Fondo interbancario di tutela dei depositi a cui aderiscono tutte le banche italiane, a eccezione degli istituti di credito cooperativo.

A questo punto il regolamento non sarà certo risolutivo, ma è lo strumento più semplice, urgente e a costo zero per tentare un passo avanti nella direzione della famosa sana e prudente gestione.

Dopo anni di scandali bancari e di strumentalizzazioni politiche, fissare i criteri di valutazione di una classe dirigente dovrebbe essere la misura minima per affrontare quella che si annuncia la più grande crisi economica del Dopoguerra e che espone il credito a nuovi rischi. Eppure, un cda dopo l’altro, lo stato di emergenza continua a essere la condizione preferita, per la politica, ma anche per le banche.

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