Le soprintendenze sono state estromesse dai porti e le prerogative dei comuni sulla loro gestione fortemente ridimensionate.

È il risultato di un blitz parlamentare firmato, con un emendamento al decreto Infrastrutture inserito prima del voto di fiducia in aula, dalle relatrici del provvedimento: Raffaella Paita di Italia viva, presidente della commissione dei trasporti della Camera e moglie di Luigi Merlo, per sette anni presidente dell’Autorità portuale di Genova, oggi in Msc Crociere, e la democratica Alessia Rotta, presidente della commissione ambiente della Camera.

L’emendamento è una riscrittura integrale dell’articolo 5 della legge che disciplina la pianificazione e realizzazione delle opere negli ambiti portuali (la 84 del 1994). Il fine è quello di accelerare le procedure, ma la modalità è drastica.

Per risolvere i contrasti fra le Autorità portuali che fanno capo al ministero delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili e alle regioni, e i comuni, le prerogative di questi ultimi vengono decapitate.

Dalla legge è infatti stato rimosso l’obbligo per gli strumenti pianificatori delle Autorità portuali di non contrasto con quelli del comune: le prime ora assumono un ruolo preminente e i loro piani regolatori divengono l’unico strumento di amministrazione del territorio portuale.

L’accettata è stata ancora più netta per le soprintendenze, espressione del ministero della Cultura. L’emendamento, infatti, sottrae gli ambiti portuali dai beni di interesse paesaggistico: pareri e autorizzazioni oggi rilasciate dalle soprintendenze non saranno più richiesti.

Una scelta politica precisa, decisamente impattante in un paese con 8mila chilometri di coste e città in cui moli e banchine sono spesso parte del tessuto urbano e gli ambiti portuali non comprendono solo aree e piazzali per attività mercantili o cantieristiche, ma anche spiagge ed edifici di pregio storico.

Da qui la ratio di un’amministrazione concorrente di più enti che viene ora alleggerita senza che né il dicastero guidato da Dario Franceschini né l’Anci, l’associazione dei comuni italiani, abbiano dato prova di essere al corrente.

In attesa di giudizio

Il segnale, però, è preoccupante anche per altri motivi. Come raccontato ad aprile da Domani, è alle viste il pronunciamento del tribunale dell’Unione europea sul ricorso che le Autorità portuali italiane hanno promosso contro l’intimazione della Commissione all’Italia di rimuovere l’esenzione per tali enti dal pagamento delle imposte sui redditi.  Anche perché non devono pagare tasse, i porti italiani operano una concorrenza sleale su quelli esteri, potendo applicare tariffe, tra canoni concessori e tasse portuali, inferiori per consentire all’utenza l’accesso ai beni gestiti.

Se, come appare probabile, il tribunale darà ragione alla Commissione, ai porti sarà riconosciuto uno status di enti economici, pienamente soggetti alla normativa comunitaria sugli aiuti di stato. A traballare quindi è l’impalcatura della portualità italiana, fatta di enti para-locali, foraggiati per quel che riguarda l’infrastrutturazione da Roma sulla base di spinte campanilistiche, senza regia né ratio di mercato.

Occorrerà quindi reimpostare quello che è oggi un prezioso strumento di potere per la politica territoriale, gradito anche ad operatori economici che, pur vittime di un sistema schizofrenico e quindi stagnante, beneficiano dell’accollo da parte dello stato di costi altrove ad essi imputati.

Un lavoro delicato quindi, cui, però, come i predecessori, il governo Draghi non ha dato segno di interessarsi. Con la fase istruttoria agli sgoccioli è l’ultimo appello per il piano B, per approntare cioè una riforma di respiro nell’unico luogo, il parlamento, deputato a trattare una legge che tocca la vita quotidiana dei milioni di italiani che vivono e lavorano in città portuali. L’alternativa, i blitz estemporanei condotti nell’oscurità a colpi di emendamento, sono proprio quel che non serve.

 

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