Sono lontani i tempi di “zio Remo”, in Abruzzo. Talmente lontani che quasi nessuno se li ricorda. Soprattutto non se li ricordano più gli operai delle fabbriche di componentistica auto della regione, dalla Sevel della Val di Sangro alla Marelli di Sulmona: i primi a cui tocca fare i conti con la crisi epocale della transizione verso la mobilità elettrica e contemporaneamente alla carenza di microchip che in questo momento mette in ginocchio anche la produzione dei veicoli nuovi, a motore ibrido.

Remo Gaspari - zio Remo, lo chiamavano - maggiorente abruzzese della Dc, sedici volte ministro, firmava in una foto in bianco e nero di mezzo secolo fa l’atto di nascita dello stabilimento Sevel di Atessa, provincia di Chieti. Una firma storica.

Era il miracolo economico che arrivava nella terra “forte e gentile” degli emigranti, tra dedali di svincoli autostradali pagati dallo Stato e strombazzanti macchine-macinino chiamate “utilitarie”. Lui era lì a incassarne i dividendi politici.

Oggi è Andrea Orlando, ministro del Lavoro del Pd, a partire dalle crisi degli stabilimenti abruzzesi della Sevel e della Marelli si trova a gestire la fase successiva. E si è accorto di recente che urge convocare un tavolo sulla situazione generale dell’industria dell’auto, dalla componentistica agli stabilimenti ex Fiat di Stellantis.

Poco tempo per adeguarsi

LaPresse

La lista delle fabbriche in bilico si allunga di giorno in giorno: Gkn a Firenze, Gianetti Ruote in Brianza, Timken a Brescia e poi Bosch a Bari, Vitesco a Pisa, e poi Marelli e gli stabilimenti ex Fca di Avellino, Termoli, Ferrara.

Orlando dice di essersi stufato di andare avanti crisi per crisi. E poi i problemi si intrecciano. Del resto anche il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, nel salotto tv di Lucia Annunziata tra le lodi a Draghi e gli accenni al patto del lavoro senza mai nominare i sindacati, ha riconosciuto che il settore automotive è quello che ha più bisogno di aiuti da parte dello Stato. Non solo in termini di ammortizzatori sociali, proprio di indirizzo, di politica industriale, come si dice.

Negli ultimi anni gli industriali hanno investito poco in ricerca e sviluppo, soprattutto nell’elettrico, e ora l’arretratezza è diventata una zavorra difficile da gestire. Perché le auto a benzina o diesel hanno una data di scadenza: il programma “Fit for 55” della Commissione europea ne vieta la messa in commercio a partire dal 1° gennaio del 2036.

Ci sono perciò quindici anni per riconvertire gran parte del tessuto produttivo italiano, trasportandolo dall’epoca di zio Remo a quella delle “strade intelligenti” e dei veicoli a guida autonoma.

Il tutto con la complicazione della concorrenza asiatica, non solo e non tanto per i pezzi di ricambio, quanto per le materie prime. In particolare per le terre rare e tra queste il neodimio, un ossido necessario a garantire batterie elettriche particolarmente efficienti e quindi modelli di automobili più performanti.

La Cina detiene il monopolio delle terre rare, ne determina i prezzi. Così c’è il rischio che le multinazionali dell’automotive, per garantirsi un vantaggio competitivo con l’accesso diretto alle materie prime, disinvestano altrove per trasferire il cervello operativo e magari i centri di ricerca e sviluppo nel paese del Dragone.

Sarebbe il piano strategico della Marelli, gruppo italo-nipponico che ai tempi di zio Remo era parte della galassia Fiat col nome di Magneti Marelli, perché all’inizio produceva candele e magneti per i motori a scoppio.

Finito tre anni fa in mano al fondo di private equity statunitense Kkr, secondo i bene informati come l’agenzia Bloomberg vorrebbe aumentare gli investimenti in Cina, a discapito di quelli “meno redditizi" in Europa.

Come Marelli a Bari, Sevel ad Atessa produce anche pezzi per i motori elettrici. Quella parte potrebbe essere al sicuro, invece ad agosto si è fermata lo stesso e ha ridotto personale di interinali e contratti a termine: causa carenza di microchip.

Gli Stati Uniti, ma anche la Germania e la Francia, stanno cercando di scavalcare il giogo della Cina con batterie a basso contenuto di terre rare. E microchip self-made per scavalcare la dipendenza da Taiwan.Il ritardo italiano qui è una voragine. Ed è stato fatto ben poco per colmarla.

A star dietro agli annunci a Mirafiori dovrebbe nascere una fabbrica di microchip con il contributo del Politecnico di Torino. Niente è partito ma secondo l’allarme lanciato dal segretario piemontese della Fiom Giorgio Airaudo si fa avanti un progetto più ambizioso o più fumoso su Catania. Quanto alla gigafactory delle batterie annunciata a Termoli, se ne sono perse le tracce.

L’11 ottobre è previsto il primo incontro al ministero dello Sviluppo economico sul gruppo franco-italiano Stellantis e altri ne seguiranno con i nuovi vertici internazionali del gruppo Marelli che la settimana scorsa ha annunciato 1.500 esuberi in tutta Europa, concentrati per il momento nell’area impiegatizia e dirigenziale. Pare per ora escluso che la ristrutturazione tocchi i 19 siti produttivi italiani. I sindacati però non stanno affatto tranquilli.

A Sulmona, a Caivano in provincia di Napoli, e a Bari, gran parte delle linee di produzione Marelli riguardano pezzi di motori tradizionali endotermici. E quindi, anche loro hanno una data di scadenza.

Alla Marelli di Sulmona l’attuale commessa per la Sevel (Stellantis) dura fino a fine 2022. Poi sarebbe trasferita in Polonia.

Il tavolo sull’auto

La crisi attuale del settore auto non riguarda quindi soltanto la scarsità dei materiali come i magneti permanenti. Non riguarda neanche i ritardi dell’industria nata come costola della Fiat e rimasta a vagheggiare il miracolo di zio Remo. «L’auto si basa ormai sul sistema “just in time” - ricorda Simone Marinelli che segue il settore per la Fiom - e con la fermata della pandemia gli ordinativi si sono interrotti e poi sono finiti in coda, non torneremo alla normalità prima di sei mesi».

Per Fiom, Fim e Uilm è essenziale che lo Stato si prenda in carico tutto il settore, intervenendo sia a sostegno dei lavoratori che rischiano il posto sia delle piccole e medie imprese della componentistica.

«Bisogna - spiega Marinelli - investire in formazione e in riqualificazione professionale, favorire il ricambio generazionale prorogando ad esempio il contratto di espansione che scade a fine novembre, studiare nuovi ammortizzatori sociali. Si devono facilitare gli investimenti pubblici e privati, perché quelli necessari sono ingenti e da sole le aziende spesso non sono in grado e poi servono le infrastrutture, le centraline di ricarica».

Il tavolo sull’industria dell’auto, 270 mila addetti e 5.500 imprese, è stato convocato una volta sola, a giugno. Era per rifletterci meglio, sotto l’ombrellone.

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