Martin Sandbu è commentatore ed editorialista economico del Financial Times, oltre ad aver ricoperto diversi ruoli accademici e di consulenza dopo gli studi in Economia politica. In questa intervista analizza la situazione della globalizzazione, soprattutto alla luce dei due eventi che stanno cambiando i paradigmi sia economici che politici del mondo.

Qual era lo stato della globalizzazione nel 2019, prima dell’avvento della pandemia e della guerra in Ucraina?

La globalizzazione aveva smesso di intensificarsi. A livello locale si è parlato di decoupling, in particolare per la frenata dell’integrazione economica tra Stati Uniti e Cina. Ma se si guardano i numeri, non stava accadendo davvero. Il commercio ha subito un lieve rallentamento dopo la crisi finanziaria, ma è rimasto stabile rispetto al Pil mondiale, così come stabili sono rimaste le interconnessioni transfrontaliere. Nel 2019 si parlava molto di deglobalizzazione, ma non era ancora realtà, anche se le intenzioni politiche c’erano. In molti paesi occidentali si riteneva che la globalizzazione fosse alla base di problemi economici. Ma all’epoca si trattava più che altro di una possibilità.

Poi sono arrivati i due “cigni neri”. Qual è stato il principale impatto del Covid?

Pandemia e guerra hanno avuto impatti simili: hanno bloccato meccanicamente molte transazioni transfrontaliere. La pandemia lo ha fatto all’inizio, in parte perché ha interrotto le catene di approvvigionamento e ha fatto sì che molte attività economiche si fermassero durante i lockdown. C’è stata poi una maggiore consapevolezza di quanto dipendiamo da altri paesi per i beni essenziali, come i dispositivi di protezione individuale o i vaccini.

E della guerra?

Il conflitto ha provocato l’interruzione dei flussi commerciali dall’Ucraina e dalla Russia, soprattutto per quanto riguarda i prodotti alimentari. Naturalmente ci sono state azioni politiche per fermare il commercio, come le sanzioni occidentali, ma anche Vladimir Putin ha usato come arma sia il commercio di energia che quello di prodotti alimentari. Ci si è resi conto, inoltre, che siamo geopoliticamente insicuri, che dipendiamo da partner inaffidabili. Per questo in entrambi i casi è aumentata la resilienza critica e in alcuni casi l’autosufficienza.

Si è cominciato a parlare di globalizzazione regionale, di “friend shoring”. Ci saranno due blocchi economici e politici: da un lato le democrazie occidentali e dall’altro le autocrazie?

Due o tre blocchi, a seconda di come l’Europa deciderà di procedere e di cosa succederà negli Stati Uniti. Nel 2019 la politica puntava verso i tre blocchi, con Donald Trump alla Casa Bianca e la consapevolezza in Europa che gli Usa fossero diventati un partner inaffidabile. Ora le democrazie liberali si oppongono alle autocrazie; tuttavia Trump potrebbe tornare e ci sono ancora disaccordi tra l’Europa e gli Stati Uniti, come sulla governance dell’economia digitale e i diritti sulla privacy. 

Quindi non sarà una vera e propria deglobalizzazione?

Credo che il punto più importante sia il significato di deglobalizzazione, perché può confondere. L’essenza economica della globalizzazione si basa sulla globalità, sull’attraversamento dei confini e sull’integrazione delle economie nazionali. L’Unione europea è il più grande esempio di globalizzazione della storia, anche se è un blocco regionale, perché si basa su una profonda integrazione tra le economie nazionali e i mercati internazionali.

Dal punto di vista economico la logica di continuare a commerciare, di lasciare che i capitali e le persone attraversino le frontiere è ancora valida. Non dovremmo guardare alla sovranità economica, nel senso di produrre tutto in casa, ma dovremmo assicurarci che l’integrazione regionale economica che ci rende dipendenti da altri sia compiuta per ottenere benefici economici, senza correre eccessivi rischi geopolitici. 

Cioè sviluppare i commerci e integrare i sistemi economici solo con i propri alleati?

Non è stato un errore cercare di estendere le catene di approvvigionamento o pensare che Mosca e Pechino fossero disposte a giocare secondo le regole globali. L’economia è soggetta al potere, al governo e alle leggi. Per troppo tempo abbiamo fatto finta che tutti fossero soddisfatti del sistema di regole messe in piedi dall’occidente, ma è chiaro che questo non vale né per Mosca né per Pechino.

È la discussione politica che si svolge nelle democrazie liberali, tra i populisti che guardano più all’interno e l’atteggiamento più liberale che pensa: «Siamo diventati troppo dipendenti, ma non perché i legami internazionali siano cattivi, ma perché siamo stati politicamente ciechi». Quindi credo che “friend shoring”, per citare Janet Yellen, sia un bel termine per descrivere il modo in cui si possa mantenere una globalizzazione. Ma dobbiamo sapere chi sono i nostri amici.

Oggi quindi il ruolo della politica sembra prevalere sull’aspetto economico, perché la priorità sarà la sicurezza del commercio rispetto all’efficienza. Non ci sarà spazio per tentativi di autosufficienza?

Dipende. Gli Stati Uniti stanno cercando di raggiungere una maggiore autosufficienza? Forse, ma anche loro fanno fatica. La Russia potrebbe raggiungere l’autosufficienza? Ci hanno provato e non ci sono riusciti prima di essere scoperti, e ne stanno soffrendo. Se si è disposti a essere poveri, si può essere autosufficienti, ma non è una buona strategia. Dobbiamo capire che l’interdipendenza deve essere gestita.

E torno a citare l’Ue come esempio di globalizzazione. I paesi membri dell’Ue sono molto più dipendenti l’uno dall’altro rispetto a quelli esterni, ad esempio della Russia, anche se ora devono affrontare i tagli del gas. Oggi è chiaro che siamo dipendenti da qualcuno che è disposto a usare la dipendenza contro di noi. Ma all’interno dell’Ue c’è un sistema per gestirla: istituzioni democratiche in cui i leader dei paesi si riuniscono e cercano di elaborare regole comuni. C’è un sistema burocratico, che è frustrante, ma in cui tutti ottengono qualcosa e nessuno ottiene tutto.

C’è una base di fiducia che può portare a risolvere i problemi, e lo abbiamo visto durante la pandemia e la guerra. Certo, ci sono delle divergenze, ma se si guarda alle azioni comuni durante la pandemia, ai pacchetti di sanzioni durante la guerra, si tratta di cose straordinarie per nazioni che riescono a trovare velocemente accordi vincolanti.

La globalizzazione regionale potrà contribuire a diminuire le disuguaglianze all’interno dei paesi ricchi, che la globalizzazione ha invece aumentato?

Non sono del tutto d’accordo sul fatto che la globalizzazione sia stato un fattore determinante dell’aumento delle disuguaglianze. Partendo da questo, non credo che la regionalizzazione dell’economia globale farà molta differenza. Le nostre economie stanno cambiando in ogni caso. Se avremo una globalizzazione più regionalizzata, in modo da commerciare di più tra democrazie e non tanto con i paesi autocratici, dovremo probabilmente ristrutturare le nostre economie, allontanandoci dai beni che potremmo ottenere a basso costo da quelle nazioni.

La Russia per esempio è stata un fornitore di materiali ed energia a basso costo; potremmo dover costruire le nostre economie in modo che funzionino con energia e materiali più costosi, il che presumibilmente significa investire molto di più nella nostra produzione interna.

E per quanto riguarda le economie in via di sviluppo?

È più difficile, ma credo che quelle di maggior successo abbiano avuto successo proprio perché integrate in un’economia globale. Soprattutto la Cina ha beneficiato enormemente della globalizzazione. La grande sfida per i paesi in via di sviluppo, che non fanno parte dei grandi blocchi, Cina/Russia, Europa e Stati Uniti (divisi o insieme), sarà quella di dover scegliere.

Per loro sarebbe meglio ottenere i vantaggi sia del commercio con la Cina che di quello con gli Stati Uniti e con l’Europa, ma se non sarà possibile dovranno scegliere e dal punto di vista economico e politico sarà difficile. Pechino si è mossa per tempo con il progetto infrastrutturale della Belt and Road Initiative, con lo scopo di integrare nella propria economia i paesi più piccoli. Se ci sarà una globalizzazione regionalizzata, la Cina è preparata. Gli altri grandi paesi e l’Europa devono mostrare come sia più attraente integrarsi con l’occidente rispetto alla Cina.

Quindi in sintesi possiamo dire che dopo circa trent’anni la globalizzazione non sta finendo, ma che ci sarà solo un aggiustamento?

Sì, penso che sia una metamorfosi della globalizzazione, non la sua morte.



 

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