La contrattazione interna alla maggioranza per le nomine ai vertici delle grandi società controllate dallo stato procede con annesse indiscrezioni sull’appartenenza politica e poche sulla loro competenza manageriale. La questione è annosa, ci aveva provato Massimo Mucchetti da senatore a cercare di indirizzare le scelte in base ai risultati. Niente da fare, anche se Meloni dice di voler scegliere i migliori, ma allora quali sono i risultati, per esempio dei big dell’energia che rinnovano i vertici?

L’Enel di Starace

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Dal 2014, anno del passaggio di consegne con il predecessore Fulvio Conti, Francesco Starace, è stato uno dei pochi manager ad aver sfruttato al meglio l’ambiente economico creato dall’euro con i bassi tassi d’interesse garantiti dalla moneta unica che, fino ad allora, avevano appesantito la gestione dell’indebitamento nel definire la strategia del gigante statale dopo un decennio di acquisizioni nell’est Europa, in Russia e con la scalata al gruppo spagnolo Endesa con tutte le sue propaggini latino-americane. Ma soprattutto Starace è stato il primo a capire il potenziale della produzione da energia rinnovabile. Coniugando la strategia per la transizione coi bassi tassi Starace e la sua squadra, in questi nove anni, hanno cambiato alla faccia alla società che nel 2022, anche grazie all’impennata dei prezzi dell’energia, ha fatturato 140,5 miliardi. Poco meno di dieci anni prima il fatturato era stato di 75,6 miliardi. L’ultimo risultato operativo ammonta a 11,1 contro 7,685 miliardi del primo anno di Starace all’Enel.

Nel triplice mandato l’ad ha programmato lo spegnimento e la dismissione di tutte le centrali a carbone di proprietà e avviato la sostituzione con parchi eolici e solari, raggiunto il 50 per cento di vendita di energia verde, compresa la produzione da nucleare e idroelettrico. Sta avviando la produzione di pannelli solari in proprio, con una fabbrica in Sicilia, per liberarsi dalle incertezze delle forniture cinesi, che negli anni passati gli sono costati il mancato raggiungimento di realizzazione della nuova capacità prevista dal precedente piano industriale. Ha realizzato robot per tagliare i tempi di costruzione dei campi solari di grandi dimensioni. Ha scommesso sulla diffusione della motorizzazione elettrica con la rete stradale di ricarica, l’architettura informatica per la gestione dei pagamenti, l’integrazione delle batterie dei veicoli come sistemi di stoccaggio di energia. Ha gestito l’uscita e la riconversione di decine di migliaia di dipendenti, senza praticamente scioperi e messo in vendita le vecchie centrali a carbone spente.

Sfruttando l’expertise nelle rinnovabili Starace ha trasformato l’offerta ai grandi clienti dalla vendita dell’energia alla costruzione degli impianti: realizza, vende, se serve tiene per sé la gestione, a pagamento, in modo da ridurre il capitale impiegato e poterlo rimettere in circolo per nuove realizzazioni e in America latina si è dato da fare con le aste. Lo ha fatto partendo dall’Europa e volendo sfondare lì per entrare negli Stati Uniti, ma senza ancora riuscire a spostarsi di molto.

Ancora nel 2021 oltre l’80 per cento dei ricavi era generato in Italia, Spagna e resto dell’Europa. Enel green power, la società delle rinnovabili, pur avendo raggiunto i sette miliardi di fatturato rappresenta solo un decimo del fatturato. La fine della politica monetaria accomodante decisa dalla Bce e l’impennata dei prezzi energetici, provocata dalla guerra in Ucraina, lo ha costretto alla resa.

Nei primi nove mesi del 2022 l’indebitamento del gruppo è cresciuto di 18 miliardi, a fine anno è arrivato a 60, secondo l’agenzia di rating americana Standard & Poor’s all’origine del debito c’è il deficit della produzione idroelettrica e il forte aumento della base di clienti con necessità di approvvigionamento non programmate e quindi costose e una politica dei dividendi troppo generosa», circa 3,4 miliardi l’anno. Il rapporto fra il margine lordo e l’indebitamento, una misura della capacità di una società di rimborsare i prestiti,si è innalzato repentinamente sfiorando il 3 per cento in un orizzonte di tassi in crescita e i vertici hanno decisamente cambiato registro ai piani al 2025. È stata decisa la vendita di asset per 21 miliardi, al netto delle tasse, destinando all’immediata riduzione dell’indebitamento e poi l’uscita dai paesi meno profittevoli come Argentina, Cile e Perù, dove in alcune aree Enel è vissuta dalla popolazione locale come una e odiosa multinazionale. Quest’anno il gruppo elettrico lascerà anche la Romania dopo essere riuscito a vendere gli asset russi a guerra già iniziata. Insomma, come i velisti nella tormenta, “per un biennio” Enel metterà la prora al vento, chiuderà i boccaporti e si muoverà solo con la spinta delle vele più piccole. Ma cercherà di continuare la transizione alle rinnovabili. Non sarà comunque una passeggiata.

Per il prossimo triennio il management ha previsto realizzazione di impianti per altri 20 kW. Sembrano pochi ma sono l’equivalente di più di 6 centrali nucleari Epr del tipo che la francese Edf sta costruendo da circa 20 anni nel Regno Unito. Progetti forse troppo ambiziosi tanto da spingere S&P, dopo la presentazione del piano industriale, a mettere in negativo le aspettative a più lungo periodo sulla società. La ragione è che il turn over di vendite e le nuove realizzazione sono a “rischio di esecuzione”.

La sua riconferma, con il cambio di verso politico – Renzi lo insediò e lo costrinse anche all’avventura OpenFiber – è altamente improbabile: se non riconfermato se ne andrà comunque con una buonuscita da 3,6 milioni di euro più le gratifiche per l’ultimo anno e in bonus in azioni. Poco più di uno zuccherino visto che nell’ultimo triennio la sua retribuzione è stata di 5,9 milioni l’anno.

L’Eni di Descalzi

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Claudio Descalzi, amministratore delegato di Eni, dovrebbe ottenere la riconferma non solo per quel che ha fatto in azienda, quanto per essere una sorta di ministro dell’approvvigionamento energetico pro tempore per Giorgia Meloni, dopo il taglio delle forniture dalla Russia. L’anno scorso c’è riuscito, perché gli stoccaggi al momento dell’embargo occidentale erano già pieni al 60 per cento del gas russo, per il 2023 la caccia ai nuovi rifornimenti sarà più difficile. Nel governo nessuno si è chiesto se l’ad di Eni non sia in conflitto d’interessi, quale primo operatore italiano del mercato?.

Da anni si discute del fatto che il gruppo energetico paga le tasse, legalmente, in altri paesi. Nel 2018 Eni per rispondere alle accuse di elusione proveniente dall’associazione Tax Justice pubblicò una torta della distribuzione dei pagamenti fiscali nei vari paesi: su di un totale di 5,08 miliardi, l’Italia aveva incassato 110 milioni , la Libia 1,8 miliardi, 630 milioni l’Algeria,480 gli Emirati e giù calando. Nell’ultimo bilancio erano sette miliardi di euro. Difficile dire quanti ne rimarranno in Italia. Detto questo sulle capacità del manager a lavorare con gli idrocarburi pochi hanno da ridire.

Quando Claudio Descalzi è arrivato il prezzo del petrolio viaggiava, da sei anni, oltre la soglia dei 100/110 dollari al barile una rendita garantita per il suo predecessore Paolo Scaroni, un manager indicato da Silvio Berlusconi, più finanziario che di prodotto, e che ora si sta muovendo per tornare alla presidenza dell’Eni.

Scaroni nei suoi tre mandati aveva potuto sfruttare i grandi vantaggi dei prezzi favorevoli del petrolio e del gas che a quel tempo si muovevano insieme legati dai contratti pluridecennali firmati con Russi, comunque non favorevoli rispetto ad altri paesi europei, e Libia. Descalzi in un anno dovette rifare i conti con il prezzo del greggio crollato a 40 dollari al barile, mentre il punto di pareggio del suo prodotto era un terzo più alto. Il suo primo bilancio nel 2015 si chiuse con una perdita operativa di 2,7 miliardi. Fu costretto a darsi da fare.

Portò il punto di pareggio della società a 20 dollari il barile, vendendo asset per 7 miliardi, fra cui Saipem, e lasciò in stand by la realizzazione del South stream il secondo gasdotto che avrebbe rinforzato le consegne di gas dalla Russia. Rinegoziò i contratti di lungo periodo. Finita la cura ricominciò ad investire per allargarsi. Nel 2019 è entrato in affari per la raffinazione con l’Adoc la compagnia di stato degli Emirati arabi che gli ha consentito di portare a 1,5 dollari al barile il break-even del barile. Nel 2020, ha acquistato uno dei sei computer privati, allora più potenti al mondo per accelerare la ricerca e la messa in produzione dei giacimenti di gas. Ha incominciato a trivellare il Mediterraneo scoprendo alcuni fra i giacimenti di gas importanti del mondo. Ma sempre al di fuori dell’Italia e dei mari italiani.

Dopo l’accordo di Parigi, Eni ha cominciato a diversificare, ma sempre continuando a estrarre petrolio e gas: il manager è convinto, come l’Associazione internazionale dell’energia, che fino al 2035, ci saranno consumi in crescita. Nel primo anno completo di conduzione Descalzi, 2015, Eni ha fatturato 67,7 miliardi e portato a casa una perdita operativa da 2,781 miliardi e le rinnovabili non c’erano.

Nell’ultimo bilancio approvato, nel 2021, il fatturato del gruppo era cresciuto a 76 miliardi e l’utile operativo a 15,5 e il suo stipendio medio dell’ultimo triennio è stato di sei milioni e spiccioli. Ma se Starace è arrivato a metà della transizione, Descalzi è appena partito: «Perché prima non avevamo la forza finanziaria per fare gli investimenti», ha detto a febbraio presentando i risultati.

La Terna di Donnarumma

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Più facile raccontare il lavoro fatto da Stefano Donnarumma perché è alla fine del suo primo mandato a Terna, dopo un triennio alla guida di Acea e un curriculum come ingegnere di produzione in nomi blasonati fra i costruttori di treni. 

La società è il monopolista proprietario della rete ad altissima tensione, i cavi che collegano le centrali di produzione al tratto successivo, che funziona a 220 volt ed entra nelle case.

A Terna compete anche la gestione del servizio del dispacciamento che apre e chiude l’interruttore dell’instradamento verso i consumatori dell’elettricità venduta dai produttori.

I suoi ricavi sono tariffe decise dall’Autorità di regolazione, in breve l’Arera, che ben remunerano il monopolista, sia pur senza affogarlo nell’oro. Insomma, il suo problema non è fatturare, 2,2 miliardi nel 2021, ma tenere in piedi la rete.

Bisogna stimare i consumi futuri, progettare gli ampliamenti adatti a fronteggiare le migliaia di richieste di nuovi allacci per impianti rinnovabili che pendono.

Si tratta di un lavoro che deve fare i conti con tutto il mondo nimby con coloro che non vogliono infrastrutture pubbliche nel loro cortile e con le rappresentanze locali.

In Italia, ogni volta che si scava un buco, si tira su un traliccio, o si tende un filo, si rischia il blocco. Non a caso il governo Draghi ha approvato un decreto che agevola le installazioni.

L’ingegnere invece ha pensato in grande e con tre tratti di penna ha pensato la soluzione per risolvere l’instabilità della rete da Roma in giù, Sardegna e Sicilia comprese, e poter esaudire le richieste per 300 gW di impianti solari e eolici, oltre sei volte la potenza già installata nel nostro paese, che hanno già ottenuto l’approvazione dagli uffici di Terna. Un’opera immensa, il Tyrrhenian Link, mille chilometri cavo elettrico posti sul fondo del mare, a grande profondità, dal costo di 3,7 miliardi e un settennato per la realizzazione, meno per i lotti. Un ex sottosegretario, ingegnere con esperienza nel settore, commentò così il primo l’annuncio fatto due anni fa: «Un’enorme spesa di denaro». Ma potrebbe anche essere una pensata risolutiva. Posando i cavi sul fondo marino, si ridurrebbero le trattative con le comunità e il progetto camminerà più spedito. Il confronto si limiterà alle due dorsali su terra che dovrebbero contribuire insieme all’ammodernamento della rete, ad assicurare il transito dell’energia dal sud che sarà sempre più irrorato di impianti rinnovabili al nord sempre in deficit energetico. Un flusso oggi contrastato da scarsa capacità e altri guai.

Nel 2020, dal Rapporto sul monitoraggio del mercato del servizio del dispacciamento dall’Arera arrivarono due suggerimenti opposti: guardare ai piccoli malfunzionamenti che obbligano il gestore a un dispendio enorme di risorse che ricade sulle bollette senza ignorare lo sviluppo delle grandi dorsali.

Che cosa hanno scoperto i tecnici dell’Arera dopo aver studiato i dati su nove anni di funzionamento della rete nel centro sud?

Tantissime piccole disfunzioni, del tipo trasformatori bruciati congestioni e surriscaldamenti e altro che costringevano il gestore ad acquistare tantissima energia, per mantenerla accesa. Nel solo 2021 il conto è arrivato a 2,9, miliardi anche a causa dell’impennate di prezzo dell’elettricità dell’ultimo anno.

Da tempo Terna ha avviato l’ampliamento del parco fornitori, anche alle rinnovabili, per aumentare la concorrenzialità dell’approvvigionamento, ma non sembra che stia dando i suoi frutti. Il bilancio per il 2022 non è ancora pubblico, forse da lì uscirà qualche bella sorpresa.

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