Le “nomine” sono il momento clou di ogni governo. A maggior ragione dell’attuale alla sua prima esperienza. In ogni paese, una nuova amministrazione fa delle nomine, ma l’enfasi mediatica che queste ricevono in Italia è una vera anomalia. Inesperto della materia, azzardo una spiegazione: un governo italiano è durato in carica mediamente 414 giorni; ancor più breve il periodo in cui esercita veramente il potere, tenuti in conto i passaggi di consegne; quindi, non c’è tempo per grandi riforme e progetti di lungo periodo (infatti l’Europa ce le ha imposte come condizione per avere i soldi del Pnrr).

Di regola, ogni nuovo governo ha quindi due certezze: la legge di Bilancio e le nomine. La prima, come tutta la politica fiscale, è però soggetta ai vincoli della Commissione europea e condizionata dal debito pubblico, per cui il governo deve limitarsi a riallocare le risorse disponibili tramite bonus, deduzioni e detrazioni, sussidi, incentivi, detassazioni, aliquote agevolate, con l’evidente obiettivo di aumentare il consenso.

Il perimetro delle nomine

Chiusa la legge di bilancio, non restano che le nomine. E qui comincia l’anomalia: quando si parla di “nomine” non ci si riferisce, come negli altri paesi, ai vertici delle agenzie e dei dicasteri funzionali all’implementazione delle direttive del governo, ma anche ai vertici di aziende che operano sul mercato, spesso quotate, di cui lo stato o gli enti locali sono azionisti di controllo.

Alcuni esponenti dell’attuale governo vorrebbe poi includervi anche i livelli inferiori della pubblica amministrazione (per intendersi, quelli da «tagliare col machete»). Il fenomeno, poi, si espande a dismisura data la numerosità degli enti locali, ciascuno con le sue aziende controllate. Uno spoils system dei dirigenti apicali è logico affinché il governo possa mettere in atto le proprie politiche; che poi l’attuale novero di dirigenti soggetti allo spoils system sia troppo ristretto, francamente non ho la competenza per valutarlo.

Prima osservazione: la breve durata media dei governi è però poco conciliabile con uno spoils system molto ampio perché avvicendamenti troppo frequenti renderebbero difficile anche la gestione dell’ordinaria amministrazione, visto che, per esempio, spesso le nuove leggi prevedono una pletora di regolamenti attuativi.

La qualità dei civil servant

Seconda osservazione: il vero problema dell’Italia è la qualità, efficienza, motivazioni e organizzazione della pubblica amministrazione, non tanto la sua numerosità, costo o fedeltà al governo di turno.

Ogni governo di ogni paese deve interagire efficacemente con molte istituzioni a propria volta composte da molti individui: il proprio organo legislativo, gli enti locali, le agenzie governative, le istituzioni sovranazionali, i paesi esteri, la stessa pubblica amministrazione da cui dipende la normativa secondaria e l’applicazione delle norme. La rilevanza di un governo nel consesso internazionale e l’efficacia delle sue politiche dipende spesso dalla capacità, efficacia, e organizzazione dei propri civil servant, a prescindere dal colore del governo o dalla struttura democratica del paese.

Più che usare il “machete”, la priorità del governo, e direi di ogni governo, dovrebbe essere investire nella qualità della pubblica amministrazione, migliorando continuamente quanto fatto dai precedenti: nessuna improbabile rivoluzione, ma un lento, continuo, progresso.

Il paradosso partecipate

L’anomalia italiana si esprime in tutto il suo splendore con le nomine nelle imprese partecipate dallo stato (o dagli enti locali): quotate, come Eni o Enel; non quotate e interamente a capitale pubblico, come Ferrovie dello stato o Rai; non quotate a capitale misto come Open Fiber o Ilva; o holding pubbliche che detengono partecipazioni in aziende come Cassa Depositi e Prestiti o Invitalia.

Innanzitutto per la numerosità delle partecipate, non solo perché lo stato è già di gran lunga il principale azionista nella Borsa italiana (di cui incidentalmente è pure socio), ma il perimetro delle partecipazioni pubbliche continua a dilatarsi in quanto lo stato interviene spesso e volentieri nelle imprese in difficoltà per difenderne l’occupazione: in questo modo non solo immobilizza ingenti capitali che potrebbero essere altrimenti investiti per favorire la crescita della produttività del paese (come per esempio la ricerca applicata o i co-finanziamenti e i crediti di imposta per investimenti privati in settori ad alta crescita), ma tende a concentrare le proprie partecipazioni nei settori in declino, a danno della crescita. Un problema non da poco visto che l’Italia è l’unico paese che negli ultimi venti anni ha visto una riduzione del reddito pro capite a prezzi costanti (-4 per cento), rispetto al +14 dell’Eurozona e +25 dei paesi Ocse.

Qual è poi il criterio usato per la nomina dei vertici aziendali? Se gli interessi dello stato azionista sono perfettamente allineati a quelli degli altri soci, tanto vale che lo stato esca o vada in minoranza, liberando capitali e lasciando agli investitori istituzionali la scelta del vertice, vista la loro maggiore competenza (per il controllo c’è il golden power). Se invece la scelta avviene per affinità personali o politiche, sorge un problema di competenze: nessun manager può essere buono per qualsiasi settore, e gli interessi dello stato possono configgere con il resto dei soci a detrimento del valore dell’azienda.

Ruoli invertiti

C’è infine il problema più grosso: la differenza tra la durata del governo che nomina i vertici aziendali, e quella del loro mandato. Un consiglio di amministrazione di solito dura in carica almeno due mandati (6 anni), mentre solo due dei 68 governi della Repubblica sono durati più di tre. In questo modo il governo nomina, in quanto formalmente in controllo, ma è poi il vertice aziendale a decidere le strategie, invertendo i ruoli tra controllore e controllato: molte decisioni di politica che spetterebbero al governo vengono di fatto delegate ai vertici delle aziende a partecipazione pubblica. Un esempio: la crisi energetica creata dalla nostra dipendenza dal gas russo è responsabilità di una precisa politica governativa o dell’Eni?

C’è anche il rischio che in mancanza di una chiara strategia di politica economica nazionale ogni azienda vada per la propria strada, con un grave costo di efficienza per il paese. La transizione ambientale offre numerosi esempi. Ho già fatto notare come l’Enel, una delle prime al mondo a capire l’importanza delle rinnovabili, abbia gran parte della capacità investita (escluso l’idroelettrico) negli Stati Uniti e America latina: un evidente cortocircuito con la presunta volontà dei governi di promuovere le rinnovabili nel nostro paese.

La Cina ha acquisito un forte vantaggio di costo nella tecnologia e produzione dei pannelli solari, batterie, elettrolizzatori per l’idrogeno e ora anche nell’eolico: il governo americano ha deciso che il rischio di dipendere dalla Cina supera il maggior costo di riportare le produzioni in America; in Italia chi decide? In Spagna è polemica tra Cepsa, società petrolifera che vuole partecipare alla costruzione di una infrastruttura per portare idrogeno verde di sua produzione in Francia, e Iberdrola, prima società elettrica nelle rinnovabili, che ritiene invece più efficiente usare energia verde per produrre idrogeno vicino alle industrie energivore, invece di trasportarlo lontano, con grandi costi e inefficienze.

Le strategie che non ci sono

In Italia, tutte le società elettriche ed energetiche sono dello stato: c’è una politica del governo in tema di idrogeno? O ognuno fa per sé, come sembrerebbe.

Alla fine, la grande abbuffata delle nomine si riduce a mero uno sfoggio di potere e a un fatto di costume: prova ne sia che un popolarissimo sito di gossip, Dagospia, sulla materia ha in Italia la stessa autorevolezza del Financial Times.

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