È bastato attendere il primo discorso della presidente del consiglio Giorgia Meloni al Senato perché l’idea del rigassificatore di Gioia Tauro, sponsorizzata dall’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi, entrasse negli obiettivi di programma di governo.

Chiesto dal presidente della regione Calabria Roberto Occhiuto, valutato anche dal governo Draghi, all’inizio di ottobre il progetto che avrebbe una capacità di rigassificazione pari a tre volte quella di Piombino, ha ottenuto il sostegno di peso di Descalzi che, nella cornice nobile del Quirinale, in occasione della consegna dei premi Eni awards da parte del capo dello Stato Sergio Mattarella, lo ha definito «utile» ad assicurare la sicurezza energetica del paese.

L’inamovibile

Con lo scoppio della guerra in Ucraina il governo Draghi prima e quello Meloni poi stanno di fatto delegando all’amministratore delegato di Eni la strategia di approvvigionamento energetico del paese.

In primavera il manager chiude il suo terzo mandato consecutivo e sostituirlo dopo una così lunga permanenza alla guida del colosso energetico di stato sembrava nell’ordine delle cose per una coalizione tornata da poco al potere e che ha fame di estenderlo.

Invece, con un peso politico e strategico ancora maggiore di prima, Descalzi è attualmente considerato quasi unanimemente inamovibile.

Una poltrona in meno

Per la nuova maggioranza di governo significa, però, una casella in meno da occupare a primavera, quando andranno a scadenza i consigli di amministrazione oltre che di Eni, di Enel, Terna, Leonardo, Poste, Rete ferroviaria italiana e Trenitalia. Un bottino talmente ricco da essere capace da solo di persuadere gli alleati a distendere le tensioni nei giorni della formazione di governo.

Nelle scorse settimane, infatti, l’orizzonte dei consigli di amministrazione delle partecipate di stato in scadenza è stato soppesato molto di più dei posti da ministro già distribuiti e di quelli di sottogoverno da poco negoziati e ha contribuito a portare tutti al traguardo del giuramento.

La casella a cui tutti guardano, quindi, è quella dell’amministratore delegato di Enel. Se la crisi energetica ha portato fortuna a Descalzi, ha portato sfortuna a Francesco Starace. Nei primi nove mesi dell’anno Eni ha registrato utili da record vicino agli 11 miliardi di euro e abbastanza da non preoccuparsi delle perdite registrate dalle attività in Italia: gli utili accontentano l’azionista stato a cui staccare dividendi generosi, le perdite sono un segnale allo stato azionista che l’investimento sull’Italia c’è a prescindere dai risultati.

Enel, invece, dopo anni di buoni risultati e rialzo sostenuto delle quotazioni in Borsa, nell’ultimo anno ha sofferto il rialzo dei costi di approvvigionamento energetici. I ricavi si sono gonfiati, ma si sono ridotti margini e utili.

Il risultato è che già a metà anno il debito era in rialzo di oltre il 19 per cento rispetto all’anno passato e secondo Equita potrebbe arrivare a nove miliardi per la fine dell’anno, anche se al momento senza conseguenze sul piano industriale.

La società si muove in un mercato che ha meno dipendenza dalle controparti politiche e dopo lo scoppio del conflitto in Ucraina, Starace ha più volte delineato nelle sue uscite pubbliche una strategia molto diversa da quella di Eni, sostenendo che l’Italia poteva fare a meno del gas. Dichiarazioni che non sono piaciute nel circuito delle altre aziende di stato e che contribuiscono a scommettere su un rinnovo ai vertici dell’azienda.

Troppi aspiranti

Gli aspiranti sono molti, anche troppi. Tra i manager di area, cioè quelli vicini alla destra, il favorito è Flavio Cattaneo, già amministratore delegato di Terna, di Telecom e Ntv.

In buoni rapporti con Meloni c’è però anche Stefano Donnarumma, amministratore delegato di Terna, che ha annunciato pochi mesi fa un piano industriale che porta in dote al governo nove miliardi di investimenti in Italia e ha partecipato alla convention programmatica di Fratelli d’Italia. La versione ufficiale da Terna è che l’obiettivo è il rinnovo dell’incarico, ma nel caso Enel andasse a qualcun altro, c’è chi è convinto che il governo possa affidare a Donnarumma il progetto da sempre accarezzato, ma mai concretizzato, di una fusione Terna e Snam con la creazione delle società delle reti.

A Enel punterebbe anche Marco Alverà, vicino a Paolo Scaroni e in buoni rapporti con Forza Italia che lo considera anche per Poste italiane, anche se chi lo conosce garantisce che non si muoverebbe se non per una nomina nel settore energetico.

FdI e Lega

Di certo Fratelli d’Italia ha come punto fermo la sostituzione di Alessandro Profumo alla guida di Leonardo, posizione a cui aspirava Guido Crosetto, passato dal business delle armi come lobbista dell’Aiad (associazione di categoria del settore), e pagato dalla stessa Leonardo, a quello di ministro della Difesa per mancanza di altri candidati spendibili. Un passaggio che lui stesso nei mesi scorsi aveva definito «inopportuno».

Seppure non ci sia al momento un nome per sostituire Profumo, l’attuale ad è nel mirino del governo: un curriculum da manager vicino al centrosinistra, una condanna per falso in bilancio e aggiotaggio come presidente di Monte dei Paschi di Siena e un altro possibile rinvio a giudizio in arrivo, sempre legato a contestazioni nella stesura dei bilanci della banca.

Soprattutto, Profumo occupa la poltrona che per Meloni è fondamentale nei rapporti per lei indispensabili con Stati Uniti e Regno Unito, le due nazioni in cui Leonardo è più presente oltre all’Italia e con cui ha collaborazioni strategiche e commesse militari miliardarie.

Un problema nei rapporti con gli alleati è la posizione di Matteo Salvini: ha ottenuto uno dei dicasteri più importanti dal punto di vista dei fondi da gestire, potenziato da 39,7 miliardi di euro dei progetti del Pnrr, un record assoluto. Ma ben 25 miliardi di euro di quel piano sono in progetti gestiti dalle Ferrovie dello stato.

Il margine di manovra di Salvini sarà quindi influenzato dal riapporti con il gruppo Fs. L’amministratore delegato Luigi Ferraris è stato scelto dal governo Draghi a metà 2021 e il suo mandato non scadrà prima del 2024. In primavera, tuttavia, scadono i consigli di amministrazione delle sue controllate Rete ferroviaria italiana, che controlla anche Anas, e di Trenitalia.

In generale, le nomine dovranno passare dalla scrivania di un ministro dell’Economia e delle finanze che non voleva fare il ministro. («Ho sgomitato molto» per ottenerlo, ha detto autoironico Giancarlo Giorgetti a proposito del nuovo ruolo. Vaso di coccio tra due vasi di ferro, Meloni che l’ha scelto e Salvini che lo ha accettato, definito da chi ci ha lavorato più incline a non decidere per mantenere gli equilibri che a decidere con il rischio di intaccarli, Giorgetti avrà un ruolo più formale che altro.

Del resto, proprio al Tesoro la maggioranza aveva pensato a un ruolo per Dario Scannapieco, se non come ministro come direttore generale, pur di liberare la casella di amministratore delegato di Cdp. In compenso Meloni potrebbe liberarne un’altra, avviando il percorso di nazionalizzazione della rete di Tim.

Le deleghe alle telecomunicazioni andranno ad Alessio Butti, sostenitore della rete unica scorporata dai servizi. E la recente apertura di Tim a offerte provenienti non solo da Cdp potrebbe essere funzionale al progetto, evitando alla cassa una fase da monopolista con in mano rete e servizi, e permettendo l’acquisizione successiva solo della rete. Anche lì ci sarebbero poltrone da occupare.

© Riproduzione riservata