Una recente sentenza della Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità sollevata due anni fa dal Tar del Lazio sulla disposizione che nel 2017 aveva previsto l’aumento del canone dovuto dai concessionari delle sale Bingo. È una vicenda forse minore ma non priva di spunti interessanti sul funzionamento del sistema delle concessioni pubbliche. Ripercorriamola rapidamente.

Gli aumenti

Nel 2001 aprono le prime sale Bingo sulla base di concessioni rilasciate senza gara e a titolo gratuito dall’allora ministero delle Finanze. Le concessioni iniziano a scadere nel 2013 quando la legge prevede un bando di gara per la riassegnazione, stavolta a titolo oneroso (con una base d’asta inizialmente fissata a 200mila euro per concessioni di sei anni). Da allora la gara è stata rimandata più volte, l’ultima con la legge di Bilancio per il 2021 che ha differito il temine al 2023, dieci anni dalla prima scadenza. Nel frattempo le concessioni in essere sono state automaticamente prorogate prevedendo, in via provvisoria, il pagamento di un onere concessorio mensile, fissato nel 2013 in 2.800 e poi nel 2015 a 5.000 e nel 2017 a 7.500 euro. Il secondo aumento ha indotto il ricorso di alcuni concessionari presso il Tar del Lazio che, nel censurare l’aumento per il suo carattere «irragionevole e sproporzionato», ha sollevato una questione di legittimità con riferimento agli articoli 3 (uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge) e 41 (libertà dell’iniziativa economica privata) della Costituzione (sic).

Il ricorso

Da un punto di vista economico, è difficile condividere la valutazione del Tar del Lazio. I concessionari pagano fin dall’inizio una somma (Preu, prelievo unico erariale) in percentuale della raccolta delle giocate, originariamente fissata al 20 per cento e poi ridotta all’11 per cento nel 2012. Come si è visto, l’onere concessorio in somma fissa, inizialmente non previsto, è stato introdotto nel 2013. Per il 95 per cento delle concessioni – che presentano una raccolta annua di giocate compresa tra 2 e oltre 20 milioni di euro – l’incidenza di tale onere varia tra lo 0,35 e il 2,7 per cento della raccolta, molto inferiore alla riduzione del Preu decisa contestualmente. L’aspetto più rilevante è comunque un altro: il vantaggio rappresentato per le imprese titolari delle vecchie concessioni dalla proroga decennale. Forse se sulla materia ci si poteva attendere un ricorso era da parte di potenziali nuovi titolari di concessione, desiderosi di entrare nel settore e impediti dalla mancata indizione delle gare, e non da parte dei concessionari in proroga. A questo proposito, la Consulta, nel dichiarare infondata la questione sollevata dal Tar sul canone concessorio, non manca giustamente di rilevare «i gravi profili disfunzionali della prassi legislativa del costante e reiterato rinvio delle gare».

I balneari

La questione delle gare è fondamentale. In linea generale, attribuendo una concessione lo stato conferisce un potere di monopolio cui di per sé è associata una rendita economica ovvero un extra profitto. Le gare servono a mettere in concorrenza i soggetti interessati, selezionando quelli disposti a pagare il prezzo più alto, estraendo così la rendita dai futuri monopolisti. Questo è quanto dice la teoria economica. Di fatto nel nostro sistema si osserva una fortissima ritrosia a rimettere a gara le concessioni esistenti, che spesso vengono prorogate all’infinito, cui si associa l’estrema difficoltà di far pagare un prezzo di mercato ai concessionari prorogati.

L’esempio delle concessioni demaniali per le spiagge e relative pertinenze è un classico. È nota la modestia dei canoni pagati dagli stabilimenti balneari, spesso al livello dell’affitto per un solo mese estivo di un monolocale nella stessa zona. In realtà, il mercato a volte funziona, solo che a estrarre la rendita ci pensa il concessionario. Un articolo del Codice della navigazione consente l’affidamento in gestione delle attività, per cui chi – diciamo – paga 1.000 per la concessione può affidarne la gestione ad altri soggetti per 10.000. Peraltro è lo stesso fenomeno che si osserva in settori meno rilevanti, si veda il subaffitto delle case popolari. Per non parlare dei casi in cui il contratto implica particolari impegni per il concessionario (gli investimenti di Autostrade). Un mix micidiale di amministrazioni inefficienti (se non colluse), di influenza dei gruppi di pressione sui politici e di norme (e interpretazioni da parte della giustizia amministrativa) a volte disegnate per proteggere gli interessi dei monopolisti (grandi o piccoli) contro quelli della collettività.

Anche in questo caso non resta che sperare, oltre che nel presidio della Corte costituzionale, nel Piano nazionale di ripresa e resilienza che annuncia un disegno di legge delega per riordinare il sistema di appalti pubblici e concessioni, basato su una serie di princìpi direttivi tra cui la piena apertura e contendibilità dei mercati e il divieto (sebbene “tendenziale”) di clausole di proroga e di rinnovo automatico nei contratti di concessione.

© Riproduzione riservata