Ci sono promesse che non si possono fare a cuor leggero. Quella che il governo ha fatto ieri durante una conferenza stampa, destinata a non avere certo la stessa eco degli scontri con il leader della Lega Matteo Salvini, è una di quelle. Il primo ministro Mario Draghi ha detto che la determinazione del governo è quella, nei limiti del possibile, di colmare il divario con gli altri paesi sui finanziamenti alla ricerca e ha dichiarato che aumenterà i fondi destinati alla ricerca di base e applicata.

Omaggio a Parisi

Il presidente del Consiglio lo ha detto citando Giorgio Parisi, il fisico dell’università La Sapienza insignito del premio Nobel che ha passato una vita a prendere posizione sulle scelte sciagurate di sotto finanziamento della ricerca dei governi italiani. Parisi ha usato anche la finestra di celebrità del giorno del Nobel per ribadire dal palco della sua università lo stesso concetto: «La speranza è che nella prossima legge finanziaria il cambiamento venga attuato».

LaPresse

Organizzare una conferenza stampa per cogliere l’opportunità al balzo era la parte semplice. I governi che si sono succeduti almeno negli ultimi vent’anni, di destra e di sinistra, i cui partiti siedono quasi tutti al tavolo del governo Draghi, avrebbero fatto probabilmente lo stesso.

Gli investimenti in ricerca, per dirla con il linguaggio del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono «investimenti abilitanti», cioè fanno parte, assieme ai fondi destinati alle infrastrutture fisiche o digitali, di quelle spese che sono il carburante per la crescita a medio e lungo termine, in altre parole per lo sviluppo del paese. A questo sviluppo i governi degli ultimi vent’anni hanno rinunciato scientemente, senza giustificazioni o con la scusa delle ristrettezze di bilancio, contribuendo a ogni legge finanziaria che non destinava abbastanza fondi al comparto.

Draghi e la ministra dell’Università e della ricerca, Maria Cristina Messa, hanno annunciato i primi bandi finanziati con i fondi del Pnrr: 6 miliardi per 60 progetti di ricerca applicata alle filiere industriali, quindi 100 milioni a progetto in media in cinque anni, che per quantità di fondi ma soprattutto di adempimenti per mettere in rete imprese e atenei avevano la priorità.

Gli altri stanziamenti sono meno generosi: c’è il Fondo italiano per la scienza, 50 milioni quest’anno e 150 milioni a partire dal prossimo anno da destinare a progetti individuali. In tutto il Pnrr ci sono poi un miliardo e 800 milioni per progetti di ricerca di interesse nazionale (Prin), 600 milioni di euro serviranno a cercare di riportare a casa i vincitori di riconoscimenti come le borse Marie Curie e altri fondi saranno destinati a finanziare partenariati tra imprese e centri di ricerca.

Si tratta di interventi importanti, ma non sufficienti per colmare il divario di cui parla Draghi e che è stato scavato con costanza per decenni.

L’Italia dimezzata

L’Italia secondo i dati Eurostat spende in ricerca e sviluppo tra finanziamenti pubblici e privati meno di un punto e mezzo di Pil. Nel 2019 il valore era pari a circa 26 miliardi di euro, di cui la maggioranza (64,7 per cento) effettuato dai privati, in realtà però gli investimenti delle imprese italiane sono concentrati sia per tipologia di aziende, poche grandi imprese, e territorialmente.

Il confronto con gli altri paesi è sconcertante, spendiamo circa la metà della Francia e un terzo della Germania. Considerando solo i fondi pubblici sulla spesa pubblica il divario si riduce, ma resta impressionante: il rapporto tra Pil e fondi pubblici in Germania è al 2,2 per cento, un livello che l’Italia ferma all’1,1 raggiungerebbe solo investendo circa venti miliardi in più ogni anno in ricerca, una cifra che invece stiamo oggi per esempio destinando al superbonus ristrutturazioni al 110 per cento.

Ma fare il salto non sarebbe semplice nemmeno se avessimo tutte le risorse. Emanuela Reale, direttrice dell’Istituto sulla crescita economica e sostenibile del Consiglio nazionale delle ricerche, si occupa da anni di politiche di ricerca e istruzione superiore, è lei per esempio che ha lavorato al rapporto del centro di ricerca della Commissione europea sulle politiche pubbliche in materia.

«L’adeguamento è certamente necessario», dice Reale, «ma non può essere fatto da un anno all’altro: sarebbe difficile perché all’Italia mancano le risorse per gestire anche i fondi». Secondo i dati di Reale, che saranno pubblicati a metà novembre nel Rapporto annuale del Cnr, attualmente in Germania ogni mille lavoratori, diciassette sono impiegati negli enti di ricerca, tra ricercatori, tecnici e amministrativi, in Italia ci fermiamo a tredici. Se poi consideriamo soltanto i ricercatori, in Germania nel 2019 erano poco più di dieci ogni mille lavoratori contro i sei italiani.

È come se l’Italia avesse deciso di avere la metà dei medici degli altri paesi Ue negli ospedali o la metà degli insegnanti nelle scuole. «Quello che dice Draghi», spiega Reale, «è un bellissimo impegno e il Recovery plan aiuta, ma per arrivare a colmare il divario serve un piano di aumento dei finanziamenti e in parallelo del personale che scarseggia soprattutto nelle imprese e nelle amministrazioni pubbliche».

Insomma, serve una legge di Bilancio che inizi un percorso chiaro, da cui non tornare indietro, impegni finanziari precisi e politiche adatte all’aumento delle risorse. Se Draghi ci riuscisse sarebbe il suo secondo whatever it takes, il resto sono le solite promesse.

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