Una leonessa in gabbia, che rasenta le pareti cercando un varco. Così pare l’Italia, stretta dalla sua crisi e ansiosa di qualcuno che la salvi. Ora, improbabilmente, il demiurgo parrebbe essere Giuseppe Conte. Ma la lista è lunga, dalla cesura del 1992–94, se ai nomi scelti dal popolo sommiamo quelli osannati dall’opinione assennata (Antonio Di Pietro, Silvio Berlusconi, Mario Monti, Beppe Grillo, Matteo Renzi, Matteo Salvini). Il Covid-19, la stagnazione economica, e in politica il deserto delle idee e i barbari alle porte: queste le componenti della crisi italiana, che minaccia sia la sopravvivenza del fragile equilibrio sul quale viviamo sia la nostra prosperità futura.

Il primo passo

I due piani vanno però tenuti distinti. Nell’immediato la priorità è chiara: superare la pandemia senza troppi lutti e danni. Ciò richiede un esecutivo capace di riscuotere un minimo di fiducia dai cittadini, distribuire il vaccino, e imbastire un programma di investimenti per i fondi europei: altrimenti la coesione sociale e la stabilità politica e finanziaria potrebbero rompersi.

Ma ora bisogna prendere provvedimenti che, oltre a tenerci a galla, ci dirigano verso acque sicure. Per farlo bisogna comprendere le cause del declino, e per comprenderle bisogna fare un passo indietro.

Nel primo decennio del secolo l’economia italiana ebbe il tasso di crescita medio annuo più basso del mondo. La doppia recessione 2008-14 fu la più grave della storia unitaria. E nel quinquennio successivo la crescita non raggiunse la metà della media dell’eurozona. È per questo che già prima della pandemia il reddito degli italiani era tornato al livello della metà degli anni Novanta; né sorprende che nel quarto di secolo che si separa da allora la demagogia abbia largamente dominato la scena politica.

È vero che nello stesso arco di tempo la crescita è rallentata pressoché in tutto l’Occidente, che il populismo si è diffuso alle società più insospettabili, e che il capitalismo liberale è ovunque oggetto di critica e revisione, per le troppe promesse tradite. Ma il declino dell’Italia spicca.

Gli altri

Francesi, spagnoli e anche tedeschi hanno buone ragioni per lamentarsi del ventennio passato, in particolare, ma i loro redditi non sono scesi al livello del 1995, come in Italia: rispetto ad allora sono cresciuti di circa un quarto. E sebbene i populisti siano cresciuti in quasi tutte le democrazie consolidate dell’Europa continentale, dove pure la rivoluzione neo-liberale è stata meno radicale che nel mondo anglosassone, in nessuna hanno vinto la vasta maggioranza dei voti e dei seggi, come in Italia.

L’aumento del disagio e della povertà, il degrado delle regioni periferiche, le disparità sociali sono tali, anzi, che è lecito stupirsi che lo scontento non si sia tradotto in proteste disordinate. La coesione sociale, la fiducia reciproca e la lealtà verso la Repubblica hanno retto, invece, e sotto il fuoco del contagio i cittadini hanno dimostrato responsabilità, impegno civile e solidarietà. Se dunque l’Italia ha problemi più gravi delle democrazie sue pari, ma resta recuperabile, per invertire il declino in sviluppo bisogna comprenderne le ragioni.

La mia ipotesi è che i nostri mali politici ed economici abbiano radici comuni. La principale causa prossima è la stagnazione della produttività, che è il vero motore della crescita, e soprattutto la stagnazione della sua componente che riflette l’innovazione tecnologica e organizzativa, che inizia a rallentare già negli anni Ottanta; ed è verosimile che ciò dipenda principalmente dalla debolezza della concorrenza e della supremazia della legge.

La ragione è intuitiva. La crescita fondata sull’innovazione, la sola veramente sostenibile nel lungo periodo, è un processo conflittuale di «distruzione creatrice», nel quale le nuove innovazioni scalzano le precedenti (si pensi al passaggio dal telefono fisso al telefonino allo smartphone). Ma se i mercati non sono aperti alla concorrenza, e se la legge non è uguale per tutti (perché non tutti la rispettano), gli innovatori avranno poco spazio e il ciclo delle innovazioni rallenterà. E ciò generalmente avverrà dove le élite economiche – le cui posizioni acquisite sono minacciate dalla distruzione creatrice – hanno eccessiva influenza sulla politica.

Tralascio qui la concorrenza per concentrarmi sulla supremazia della legge. Esistono stime, elaborate della Banca mondiale, di quanto le leggi tendano a essere rispettate nei diversi paesi. Il divario tra l’Italia e le altre grandi democrazie occidentali è vasto e crescente. Su una scala che va da 2,5 a -2,5 il livello dell’Italia è 0,25: la media dei suoi pari è 1,44 (per paragone, la media dei paesi balcanici estranei all’Unione europea è -0,22). Nel 1996, il primo dato disponibile, il livello dell’Italia era 1,06 e la media dei suoi pari 1,50: uno scarto (-0,44) inferiore alla metà di quello attuale (-1,19). Queste stime vanno lette con molta cautela, ma altri dati – sulla corruzione e l’evasione fiscale, per esempio – le confermano enfaticamente. In Italia la supremazia della legge è debole, ed è calante. Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia, la definisce così: la supremazia della legge «è ciò che impedisce ai pochi di rubare ai molti». La legge protegge i deboli, non i forti, e meno le regole sono rispettate più i potenti possono dominare chi ha meno potere.

Il controllo

Quindi la supremazia della legge può degradarsi, e restare debole, solo se i cittadini hanno scarso controllo sulle autorità che li governano: altrimenti esse non permetterebbero all’interesse dei «pochi» di prevalere su quello dei «molti».

Il controllo sulle autorità pubbliche, a sua volta, dipende dal regime di responsabilità politica sotto il quale esse agiscono: ossia dipende dalla qualità del sistema elettorale e dei partiti, dall’indipendenza dei media, dall’attivismo dei cittadini, e da tutto ciò che agevola la critica pubblica. In Italia anche la responsabilità politica è relativamente debole.

Questo intreccio tra la debolezza della supremazia della legge e la debolezza della responsabilità politica spiega larga parte del declino. L’Italia non cresce, da un quarto di secolo, perché la produttività è ferma; ristagnano in particolare i redditi delle classi basse e medie; l’interesse dei «pochi» prevale troppo spesso su quello dei «molti», grazie alla frequente collusione tra élite politiche ed élite economiche; e tutto ciò genera sfiducia politica, inceppa la democrazia rappresentativa, ostacola le riforme, e alimenta la demagogia. Questa, in una parola, è la spirale che stringe l’Italia.

Per invertirla non occorrono demiurghi ma idee per organizzare la società in modo più equo ed efficiente, e attori politici collettivi capaci di raccogliere la vasta coalizione che dovrà porsi questo obiettivo (che includerà parte delle élite: quelle innovatrici). Questo non avverrà domani, naturalmente, ma è in questa direzione che bisogna operare; e le implicazioni dell’analisi che ho appena riassunto possono essere utili anche nell’immediato.

Ne cito solo una sola, ovvia. La pubblica amministrazione è lo strumento tramite il quale lo stato agisce nella società, ed è decisiva per la supremazia della legge e la produttività. In Italia è inefficiente, e ha resistito a svariati tentativi di riforma perché influenti minoranze – perlopiù esterne all’amministrazione – beneficiano della sua inefficienza. La tentazione di scavalcarla invece di migliorarla, affidando il Recovery fund a organismi ad hoc, è comprensibile: così fecero il regime fascista, dopo la crisi del 1929, e la prima classe dirigente della Repubblica, e forse ebbero ragione. Ma l’urgenza della crisi, che può travolgere la resistenza di quelle minoranze, ci offre l’opportunità di fare una scelta più lungimirante.

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