La “bomba sociale” di cui parlano i sindacati è innescata, il timer corre. Mancano poco meno di sessanta giorni alla fine del blocco dei licenziamenti tolte le domeniche. La scadenza legale è il 31 marzo. Cosa succederà dopo è difficile da prevedere. Si sa solo che finora 14 milioni di persone hanno ottenuto un sostegno al reddito per l’emergenza, tra bonus una tantum e cassa integrazioni, una cifra senza precedenti.

Non a caso nel discorso del presidente Sergio Mattarella la data di fine marzo è stata citata per indicare la necessità e l’urgenza di assicurare un governo evitando un rimando a data da destinarsi di «provvedimenti di natura sociale adeguati e tempestivi, molto difficili da assumere da parte di un governo senza pienezza dei poteri». Un governo in carica per l’ordinaria amministrazione e con la campagna elettorale in corso non può certamente fare la riforma degli ammortizzatori sociali. Mentre è evidente che serve un architrave a cui ancorare l’occupazione che ancora c’è in modo che non si inneschi la valanga.

Ieri mattina il Centro studi di Confindustria ha pubblicato un’indagine sulla tenuta del tessuto industriale in epoca Covid. La produzione industriale a gennaio ha mostrato un modesto rialzo, l’1 per cento rispetto al mese precedente. Sono aumentati gli ordini, ma la produzione è stata alimentata soprattutto da un robusto incremento delle scorte. E gli imprenditori esprimono «forti perplessità sulle prospettive dei prossimi mesi».

Significa che le fabbriche hanno continuato a produrre in virtù del blocco dei licenziamenti limitandosi a riempire i magazzini senza una grande speranza di poter collocare i prodotti sul mercato. La domanda, come si sa, ristagna.

Alle gravi crisi industriali ereditate dall’epoca pre-Covid, i grandi dossier di Ilva, Alitalia, Autostrade, si sommano le difficoltà aziendali aggravate per effetto della pandemia. Dalla Whirlpool di Napoli alla Blutec di Termini Imerese, sono 150 quelle censite con 300mila lavoratori interessati, 80mila soltanto nel comparto metalmeccanico, in queste ore impegnato nel difficile negoziato sul rinnovo del contratto di lavoro. Secondo l’economista Mario Pianta della Scuola Normale superiore Sant’Anna un terzo delle imprese sono a rischio sopravvivenza e un altro terzo ha necessità di ristrutturarsi.

Per non parlare del comparto dei servizi, quello che ha sofferto di più. È lì che si concentrano i 444 mila posti di lavoro persi nell’anno Covid per mancati rinnovi di contratti a termine di giovani e donne, quasi mezzo milione di precari scaricati, che sono andati a raggiungere i 2 milioni e mezzo di disoccupati e scoraggiati, gente che un lavoro neanche lo cerca più.

Al Quirinale non può essere sfuggito l’allarme lanciato tre giorni fa, mentre la politica parlava di tutt’altro, dal segretario generale della Cgil Maurizio Landini sulla riforma degli ammortizzatori sociali. Il primo confronto al ministero del Lavoro è saltato lo stesso giorno in cui si è aperta la crisi di governo. Esiste una bozza preparata dagli esperti del comitato tecnico ministeriale guidato dal giuslavorista Marco Barbieri. «Spero che la riforma resti prioritaria anche per il prossimo esecutivo e mi auguro che tutto il lavoro tecnico fatto per assicurare un sistema universalistico di tutele non venga buttato», afferma Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil. Anche se i fondi del Recovery plan arrivassero domattina servirebbero almeno due anni per attuare una vera riforma. Nel frattempo, sostiene il sindacato di corso d’Italia, è indispensabile disinnescare la bomba sociale. Sperando nella ripartenza.

 

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