Produrre idee capaci di innovare: quel valore che sfugge alle università

Correva l’anno 1222 quando un gruppo di circa un centinaio di studenti lasciò Bologna e con quaderni e bagagli a dorso d’asino si recò a piedi a Padova per fondare una nuova università. L’esigenza era quella di trovare maggiore libertà e autonomia, che evidentemente non sentivano più garantite dall’ateneo bolognese. Più di 800 anni dopo il mondo e la società si sono completamente trasformati, ma certe esigenze, seppur per ragioni diverse, si ripresentano. Oggi secondo la rivista Nature, che a fine settembre ha dedicato uno speciale al tema, le università rischiano di venir meno a quella libertas che è presente nello stemma dell’ateneo patavino (universa universis patavina libertas) e che più in generale vale per tutte le istituzioni accademiche: la libertà di fare ricerca, di insegnare, di diffondere e di accedere alla conoscenza, deve valere per tutti. Deve essere, appunto, universale. Il maccartismo anti-Harvard di Trump è un attacco alle nostre libertà (e al futuro) Il problema della crescita Ciò che oggi minaccia questa fondamentale libertà accademica è un fattore di natura macroeconomica. La crescita economica del mondo, specialmente quello occidentale industrializzato, non è più quella del Dopoguerra. Allora i governi, in cima alla lista quello statunitense, erano ben contenti di pagare i costi dell’istruzione e della ricerca universitaria, sapendo che l’investimento avrebbe reso in termini di arricchimento tanto economico quanto sociale e culturale. Nel 1950 erano circa 6 milioni gli studenti nelle università di tutto il mondo e il Prodotto interno lordo cresceva stabilmente anno dopo anno. Oggi il numero globale di studenti universitari è salito a più di 260 milioni e dalla crisi finanziaria del 2008 l’Occidente sostanzialmente non è più stato in grado di generare la ricchezza che produceva il secolo precedente. Ne sa qualcosa l’Italia, che secondo i dati Istat ha visto addirittura calare dello 0,1 per cento il proprio Pil nel secondo trimestre di quest’anno, proiettando una crescita annuale dello 0,4 per cento. La conseguenza è che anche le spese universitarie, non solo in Italia ma anche in altri stati secondo la mappatura di Nature, gravano sempre di più sugli studenti e le loro famiglie. Nel nostro paese sono circa 2 milioni gli studenti iscritti a un corso di laurea, in aumento del 10 per cento rispetto a un decennio fa. Tuttavia, una quota crescente negli ultimi anni ha scelto le università telematiche: più di 300.000 studenti. Come una dirigente d’azienda, la rettrice della Columbia ha interrotto le parole con la forza Capitali privati Là dove non arrivano i fondi pubblici arrivano i capitali privati e questo vale non solo per la didattica, ma anche per la ricerca. I giovani ricercatori di dottorato e post-dottorato appaiono come forza lavoro a basso costo per aziende private che investono in ricerca e sviluppo: invece di assumere un dipendente a cui dovrebbero pagare stipendio, tasse e contributi, finanziano un progetto di ricerca in partnership con un laboratorio di un’università pubblica. Pagare un contratto universitario al privato costa molto meno. Se poi il progetto si rivela promettente, la clausola firmata tra privato e università consente quasi sempre all’azienda di tenersi l’intera proprietà intellettuale dell’eventuale brevetto e con essa i ricavi che nel tempo ne derivano. È proprio qui che le università hanno margine di manovra per ripensare il proprio modello di sostentamento: devono capitalizzare meglio il valore che producono. In un commento su Nature, Yasheng Huang, professore di economia alla Sloan School of Management del Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston, declina questa proposta nel contesto statunitense, dove i numeri presi in analisi sono più grandi di quelli europei, ma il suo discorso può facilmente venire applicato, con gli opportuni aggiustamenti, anche a questa sponda dell’Atlantico. Nel 2023 i 10 più prestigiosi college americani potevano godere di una dotazione finanziaria di più di 270 miliardi di dollari. Può sembrare che navighino nell’oro, specialmente se confrontati con le risorse economiche delle università europee, ma Huang ricorda che le cinque più ricche persone al mondo (Elon Musk, Larry Ellison, Mark Zuckerberg, Jeff Bezos e Larry Page) insieme raggiungono una ricchezza di oltre 1.500 miliardi di dollari. Questi cinque imprenditori certamente hanno investito parte del proprio patrimonio in innovazione, ma hanno creato più valore per la società rispetto alle dieci istituzioni universitarie? Ad Harvard un esperimento formativo di diversità religiosa Il valore economico delle idee Un rapporto del 2015 del MIT aveva calcolato che le aziende fondate da alunni del college del Massachusetts avevano generato un valore economico di 1.900 miliardi di dollari. Se fossero uno stato, sarebbero la decima economia al mondo. Un simile studio del 2012 aveva trovato che lo stesso valeva per l’università di Stanford, in California. «Eppure, questo valore non figura da nessuna parte nei bilanci delle università», sottolinea Huang. Il fatto che il valore economico prodotto dalle idee innovative nate nei laboratori non rimanga all’interno delle mura universitarie non è di per sé un’anomalia. Il successo della missione universitaria del resto si misura nell’arricchimento del territorio al di fuori delle aule. Per decenni è andata così e in cambio di questo essenziale servizio sociale, lo stato federale statunitense ha supportato le attività di ricerca con finanziamenti pubblici, esenzioni e incentivi fiscali ai college. Questo patto sociale è stato un modello di sviluppo che ha mantenuto gli Stati Uniti stabilmente al vertice di un’economia globale in cui è proprio la conoscenza scientifica l’ingrediente segreto. Oggi le cose però sono radicalmente cambiate: l’attacco di Donald Trump alla ricerca, alla cultura scientifica, a college privati come Harvard e la Columbia, e il taglio dei finanziamenti a istituti pubblici come i National Institute of Health, che reggono la ricerca biomedica, e la National Science Foundation, che supporta la maggior parte della ricerca di base, ha rotto questo patto. Le università, statunitensi ma non solo, devono prenderne consapevolezza e trovare soluzioni. «Questo momento è decisivo e richiede un drastico ripensamento di come le università sostengono le proprie attività. Le istituzioni dovrebbero esplorare un nuovo modo per catturare una porzione più grande dei ritorni finanziari sulla conoscenza che contribuiscono a creare» sostiene il docente del MIT. «Le università dovrebbero negoziare per ottenere più capitale di fondazione nelle iniziative basate sulla ricerca finanziata dalle istituzioni, per riflettere il contributo fornito in termini di competenze, infrastrutture e lavoro intellettuale». Alcune in parte lo hanno già fatto, come Stanford, che ha ricavato più di 300 milioni di dollari dalla partecipazione con Google al brevetto sull’algoritmo di ricerca PageRank (sviluppato da Larry Page e Sergey Brin). Si tratta però di eccezioni, che dovrebbero invece diventare la regola. Riscrivere la storia come i tiranni. La cancel culture di Trump La situazione italiana E in Italia? Una fotografia la fornisce l’associazione Netval, che dal 2002 monitora le attività di trasferimento tecnologico di università ed enti pubblici di ricerca (Epr). Il dato più rappresentativo è forse quello delle entrate derivanti da contratti di licenza attivi: nel 2023 erano poco meno di 6 milioni di euro per le 50 università ed Epr monitorati, ma quasi 5 milioni li raccolgono soltanto i primi 5 istituti di ricerca italiani. «Il sistema presenta ancora due velocità» si legge nella sintesi del rapporto 2025. «È così da troppo tempo e la situazione si sta cronicizzando, dimostrando come la responsabilità di contribuire al progresso della società non sia ancora pienamente attuata in tante strutture di ricerca». Eppure, «i primi cinque dimostrano che si può fare», nonostante le cifre italiane siano ancora minuscole rispetto a quelle statunitensi. Leggendo questi numeri e queste analisi, non può che risuonare la frase che Netval, sotto forma di domanda, ha scelto di mettere nel titolo del suo ultimo rapporto: “Un’occasione persa”. Alla destra serve un nuovo racconto, Parigi “plasmata” dai soldi di Stérin