In un recente articolo su Domani, Valeria Termini rilancia il tema della carbon tax per affrontare il cambiamento climatico e ricorda il ruolo fondamentale che l’Italia avrà nel 2021 su questo fronte, grazie alla presidenza (assieme agli inglesi) della C26, la conferenza sul clima della Nazioni unite. L’articolo presenta anche una serie di riflessioni critiche sul funzionamento del mercato dei permessi di emissione europei (ETS), il principale strumento messo in piedi dall’Unione europea per raggiungere lo stesso obiettivo di una carbon tax, cioè l’incremento del prezzo di utilizzo del carbonio allo scopo di incentivare e rendere conveniente l’uso di energie alternative ai fossili.

Difficile non condividere. Solo alcuni punti che merita forse chiarire. Primo, l’Italia nel 2021 non avrà solo la co-presidenza del C26, ma anche la presidenza del G20 e ospiterà il vertice mondiale sulla salute. Il nostro paese avrà cioè la possibilità di indirizzare la politica mondiale sui grandi temi del futuro, tra di loro tutti ovviamente legati: transizione energetica e sviluppo sostenibile, diritti alla salute, rivoluzione tecnologica. Di fronte a queste importanti responsabilità, la mancanza di attenzione da parte dei principali media e il provincialismo del dibattito politico italiano fa onestamente impressione. Forse dovremo cominciare ad occuparcene seriamente.

Secondo, attenzione a non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Le critiche a come il sistema degli ETS è stato applicato finora sono giustificate, ma questo non significa che il sistema stesso sia da buttare. I motivi per cui esso finora non è riuscito ad aumentare il prezzo del carbonio come atteso sono molteplici. Primo, il fatto di essere stato introdotto in un periodo di crisi economica, che ha spinto verso il basso il prezzo del petrolio, senza che meccanismi compensativi, come un prezzo minimo (floor price), fossero introdotti. Secondo, come ricorda la stessa Termini, la stessa politica di offerta gratuita dei permessi a una serie di grandi inquinatori, recentemente soprattutto nella manifattura, per proteggere i produttori nazionali e evitare lo spostamento fuori i confini europei di produzione e occupazione. Terzo, errori di programmazione che hanno condotto a un eccesso di offerta dei permessi in momenti cruciali.

Il prezzo inizia a salire

Tutti questi problemi però sono in corso di soluzione e quando sono stati affrontati gli effetti si sono visti. Per esempio, in un lavoro svolto per conto del Parlamento europeo, facciamo vedere come nella fase più recente di applicazione degli ETS, per i produttori manifatturieri che hanno effettivamente dovuto acquistare i permessi, il meccanismo di incentivo del prezzo abbia funzionato: gli effetti di riduzione delle emissioni ci sono stati e sono stati rilevanti. Inoltre, l’introduzione nel 2018 di un meccanismo automatico di cancellazione dei permessi (Market Stability Reserve) per tener conto dell’eccesso di offerta a seguito di grandi shock economici, pare abbia già giocato un ruolo importante, agendo sulle aspettative delle imprese, nell’evitare che il prezzo del carbonio crollasse a seguito della crisi innestata dal Covid, a differenza di quanto successo nella crisi del 2008. Infine, la previsione di una Carbon Adjustment Tax sui prodotti importati, presente nel Green Deal europeo, in modo da far pagare ai produttori stranieri lo stesso prezzo sull’uso dei combustibili fossili dei produttori europei, se effettivamente introdotta, toglierà ogni alibi al mantenimento di una politica di distribuzione gratuita dei permessi, ora sostenuta dai grandi paesi manifatturieri. 

La via del taglio dei sussidi

Infine, bisogna stare attenti alle parole. L’antico detto cinese «non importa di che colore è il gatto, l’importante è che prenda il topo» si adatta molto bene a questo caso. Studi sperimentali mostrano come le persone reagiscano male all’uso della parola «tasse». si dichiarano disponibili a pagare un prezzo per l’inquinamento generato, ma se questo viene presentato come una tassa, allora una parte si oppone immediatamente. L’importante è far salire gradualmente ma decisamente il prezzo dell’uso dei combustibili fossili; se questo obiettivo viene raggiunto tramite un sistema di vendita di permessi invece che una tassa fa lo stesso. Piuttosto, cominciamo a dire che bisogna tagliare i sussidi a favore delle energie inquinanti, a cominciare dai trasporti.

La risposta di Termini

Condivido appieno l’urgenza espressa da Massimo Bordignon di discutere contenuti e politiche nella preparazione dei prossimi appuntamenti internazionali che vedono l’Italia in prima linea. Penso anche che per una politica di decarbonizzazione i due strumenti di cui si discute – carbon tax e permessi di inquinamenti negoziabili (ETS) -  debbano alla fine coesistere per dare un prezzo al carbonio, elemento essenziale delle politiche per il clima. È la soluzione introdotta con successo in Svizzera, in Danimarca, in Irlanda, alle quale si è aggiunta di recente la sperimentazione in Cina.

Aggirare Polonia e Gran Bretagna

Va riconosciuto però che gli ETS furono solo un primo tentativo di intervento nel 2006, con il quale l’Ue cercò di superare la barriera alzata dai paesi membri che basano sul carbone la produzione interna di energia (la Polonia in primo luogo) e di non scontrarsi con la politica di estrazione del petrolio della Gran Bretagna, che poi dovette imporre un valore minimo al prezzo del carbonio. Da soli gli ETS europei non bastano certo come strumento di decarbonizzazione, né si può pensare di prevenirne le distorsioni. Sono meno fiduciosa sull’esito positivo dell’ennesima riforma richiamata da Bordignon, per tre ragioni che provengono dall’esperienza più che decennale del loro utilizzo e che ricordo: il prezzo degli ETS (del carbonio) è rimasto vicino allo zero anche quando il petrolio ha superato i 100 dollari al barile (nel 2012 e nel 2013);  non è stato certo il mercato a far salire il prezzo degli ETS quest’anno, ma l’intervento di Angela Merkel e il consistente acquisto di certificati dalla Germania per sostenerne il prezzo e far sì che fosse compatibile con la politica di decarbonizzazione intrapresa; infine sappiamo che il fondo di Riserva di ETS è stato costruito per consentirne la distribuzione alla Polonia e superare il veto polacco alla politica di dare un prezzo al carbonio. Ricordo queste criticità per smorzare l’ottimismo nei confronti di uno strumento considerato di mercato tra le politiche dell’Ue.

Non è facile introdurre nuove tasse, è vero, e non è un caso che la Commissione europea nel Green Deal proponga di passare dall’unanimità al voto di maggioranza su questo tema fiscale. Ma se è essenziale dare un prezzo al carbonio e ridurre drasticamente i sussidi ai combustibili fossili, come concordiamo, allora va seguita la via delle politiche concordate a livello globale, per non penalizzare l’industria europea inutilmente (senza produrre risultati significativi di decarbonizzazione del pianeta) e proteggerla dalla concorrenza sleale nelle politiche climatiche con una border carbon tax.

Ben venga dunque l’occasione della ripresa dei lavori sul clima alla COP 26 con la rinnovata forza apportata dalla partecipazione attiva degli Stati Uniti, che consente all’Ue di essere propositiva nella prospettiva globale di dare un prezzo al carbonio, proposto nell’Eu Green Deal.  Carbon tax, ETS e una drastica riduzione dei sussidi ai combustibili fossili sono di certo complementari per contribuire a decarbonizzare la crescita nel dopo Covid. Purché concordati in un percorso globale.

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