Sei innamorato di una persona, cerchi di conquistarla, fai del tuo meglio, ma lei non si innamora di te. Non accade. Alla fine lasci perdere, anche se ci rimani male. Le tue azioni, questo sì, hanno avuto un effetto sulla realtà, anzi, hanno avuto vari effetti: questa persona ora sa che la ami, e in più tu ci sei rimasto male. Le tue azioni, insomma, non sono state prive di conseguenze. Ma le conseguenze non corrispondono a quello che desideravi ottenere.

Gli esseri umani contribuiscono a creare la realtà, nel senso che attraverso i loro gesti sicuramente la influenzano. Ma questa capacità di influenzare la realtà non significa che la realtà sia controllata dalle loro intenzioni. Talvolta riusciamo ad avere quello per cui abbiamo combattuto, ma nonostante vada di moda dire “Se vuoi, puoi”, le nostre ambizioni restano spesso insoddisfatte, anche quando ce la mettiamo tutta.

Potremmo anzi dire che ottenere le cose, specie quando bisogna passare attraverso l’interazione con gli altri, cioè con l’ignoto rappresentato dagli altri, è molto difficile. Per il fatto di agire, ma anche solo di pensare, ognuno di noi crea rumore e caos, modifica anche impercettibilmente il panorama, gli oggetti, i propri simili. Ma questo non significa che la realtà soddisfi le nostre aspettative, cioè le aspettative che associavamo alle nostre azioni. Il rapporto causa-effetto che avevamo previsto rimane una fantasia.

Costruzioni mentali

Ora, se dovessi dire qual è la spina dorsale dei romanzi che mi piacciono (delle serie, dei film) forse userei proprio questo concetto: gli esseri umani contribuiscono a creare la realtà, ma questo non significa che la realtà sia controllata dalle loro intenzioni. Posso citare molte storie con questa spina dorsale. Doppio sogno, Le relazioni pericolose, Barry Lyndon, L’età dell’innocenza, Pastorale americana. Se comincio, non finisco più. L’esercizio è fin troppo facile. Per me la spina dorsale delle storie migliori è questa. E pensarci mi ha colpito l’altro giorno, proprio perché riflettevo su tutt’altro, e cioè su come funzionano i modelli economici. (Piccolo inciso per spiegare l’apparente volo pindarico: sono una scrittrice con una formazione economica).

I modelli economici sono delle costruzioni mentali che hanno lo scopo di rappresentare la realtà economica, di renderla analizzabile e in qualche modo prevedibile. I modelli in verità nascono con un intento nobile: la conoscenza. Per costruire un modello infatti bisogna capire quali sono le domande giuste che dobbiamo farci di fronte a un problema.

Descrivere qualcosa (e dunque, poi, creare il suo modello) significa anzitutto capire quali sono queste domande. Di fronte a noi c’è una realtà che appare intera, un monolite. Modellarla (o modellizzarla) significa capire come possiamo dialogare con questa realtà.

La sfida dei modelli

Il problema dell’economia, però, è che non si tratta di una scienza, ma di una disciplina che deve tener conto di una serie di interazioni le cui conseguenze sono spesso non quantificabili, sia in termini di dimensione, sia in termini di rischio. Anche perché si tratta di interazioni che a loro volta determinano altre interazioni.

Abbiamo le interazioni fra le menti umane che partecipano all’economia, e fra queste e le intelligenze artificiali che la compongono, abbiamo le interazioni fra le teorie e le strategie, fra le previsioni, le azioni e le aspettative. Tutti guardano tutti, e tutti cercano di capire come comportarsi. Menti e oggetti che si guardano. Mani che si disegnano vicendevolmente, e che nel momento in cui iniziano a disegnarsi cambiano modo di disegnarsi. Un terremoto non è prevedibile, ma non è neppure influenzato da questo continuo dialogo fra cose che si osservano, si distruggono e rinascono. Da questa produzione di pensiero. L’economia sì.

In tal senso la realtà economica non può essere ridotta a un puro meccanismo. La cosa interessante è che spesso lo è, nel senso che gli esseri umani, al cospetto dell’economia, da sempre tendono a raffreddarla, riducendola (speranzosamente) a un meccanismo.

Quando creiamo un modello abbiamo, dicevo, un nobile intento di conoscenza.

Poi iniziamo a usare il modello, e, nel tempo, a credere nel modello, perché ci sembra che funzioni, perché abbiamo la sensazione di aver capito. Il nostro pensare diventa più semplice, ma meno utile. Avevamo iniziato cercando le domande giuste per riuscire a dialogare con il monolite, e siamo finiti a credere che la realtà sia controllata dalle nostre intenzioni. Mi colpisce pensare che i romanzi migliori abbiano da sempre compreso quello che l’economia periodicamente sembra non essere in grado di accettare.

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