Oggi la premier Meloni illustra ai sindacati di imprese e lavoratori il disegno di legge delega (Ddld) sulla riforma fiscale. Forse non dirà, come venerdì scorso a Catania “Basta col pizzo di stato”, la cui politica generale, per Costituzione, Meloni dirige. Prometterà anche a loro la fine del pizzo, neanche lo stato fosse un mafiosetto?

Chissà, magari fra poco la destra prenderà il coraggio a due mani, per definirsi finalmente partito dell’evasione. Tanti elettori di destra sono leali contribuenti, ma a un marziano che piovesse a Roma sarebbe subito chiaro: la destra difende e rassicura chi evade.

Non che la sinistra abbia brillato contro l’evasione, difatti chi, come Vincenzo Visco, l'ha più d'ogni altro politico avversata è stato presto celato agli elettori, ma la frase di Catania non si può sentire! La doppiezza è in certa misura ineliminabile – altri direbbe “indispensabile” – in politica, ma Meloni supera ogni precedente; non giunse a tanto neanche, nei suoi giorni grandi, Berlusconi, inventore dell'abietto slogan per cui tassare è metter le mani in tasca agli italiani. Se egli benedice da remoto la riformetta, apertamente la difende sul Sole 24 Ore Giulio Tremonti; per quest'altro progenitore del Ddld, sempre prodigo di slogan ardui da decrittare perché spesso vacui, oggi «è il fisco che deve andare verso il mondo», non viceversa.

Per lui il ddld coglie «lo spirito del tempo», voleva certo dire Zeitgeist ma l'intervistatore, Gianni Trovati, l'avrà sconsigliato. Nessuno come lui è così ratto a cogliere tali mutamenti; cantò prima la lex mercatorum, poi il ritorno dello stato, ora loda la sua ritirata, fin qui sfuggita ai tanti osservatori che vedono piuttosto il contrario; tanto cambierà presto idea.

Il vice ministro dell’Economia, Maurizio Leo, noto fiscalista lombardo, è il vero padre del Ddldd, che difende parlando a Enrico Marro del Corriere. Per lui la Ue chiede la riforma fiscale «e il nostro Ddld fa proprio questo».

Se Tremonti della progressività dell'imposta si fa beffe, Leo la garantisce così: le aliquote Irpef scenderanno da 4 a 3 «e poi, a fine legislatura, se ci saranno le risorse, faremo la flat tax. Ma anche in questo caso la progressività sarà mantenuta grazie alla no tax area e al sistema di deduzioni e detrazioni». Uno capace di affermazioni così contraddittorie senza scoppiare a ridere sarebbe il sicuro vincitore della prossima edizione di “Lol- chi ride è fuori”.

Rischia però di trovare nello stesso governo chi, con ben maggiora autorità, può batterlo. A Catania Meloni ha detto che il fisco chiede ai piccoli commercianti il pizzo di stato solo perché deve fare «la caccia al reddito più che all'evasione fiscale». Prima ancora di ogni altra valutazione, il governo va messo in stato d'accusa per disprezzo della logica e della lingua patria, essenziale a preservare l'italica etnia.

Signora presidente, l'evasione può essere quasi solo sui redditi, essendo le imposte sul patrimonio ridotte al lumicino, grazie al metodico picconaggio della patriottica destra. Questa riforma fiscale è sconfortante.

Niente dà la misura della caduta verticale della classe politica, quindi di chi la elegge, come il paragone fra l'assenza di vere riflessioni dietro questa riformetta, e le discussioni precedenti a quella della metà degli anni Settanta.

Allora si confrontarono le idee di due pesi massimi come Cesare Cosciani e Bruno Visentini, ma dietro il Ddld c'è il misero lavoro, da pesi Welter, della commissione parlamentare per la riforma della legislatura scorsa, con in più le idee portate da Leo. Spicca fra queste il concordato preventivo fiscale, con cui fisco e impresa definiscono l'imponibile del biennio successivo; su tale base l'impresa non subirà accertamenti.

Per Meloni così si combatte l'evasione, ma questa sarà così legalizzata, e pure al riparo dall'importuna curiosità del fisco. Il quale, ricordiamo ai distratti, deve finanziare la sanità, l'istruzione, la sicurezza, le pensioni, il rispetto della legge e tanti beni pubblici, rilevanti anche per chi le tasse le sfugge.

L'Unione Europea e la Banca d'Italia hanno segnalato le numerose criticità della riformetta, soprattutto per i colpi alla progressività e per la conseguente mancanza di equità. Ora però la volpe, messa a guardia del pollaio dall'elettore sovrano, fa spallucce; sostituirla non sarà facile, anche perché le imposte in Italia le pagano in grande maggioranza dipendenti e pensionati. Non proprio un potente gruppo di pressione.

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