Cosa succederebbe se iniziassimo a tassare almeno le nostre multinazionali? Non le multinazionali dell’economia digitale, la cui base imponibile è pure di difficile definizione, non le aziende che hanno sede nei paradisi fiscali, ma semplicemente le grandi multinazionali dei paesi Ue, i campioni europei, spesso considerati industrie di sistema e persino partecipate dallo stato che però spesso pagano tasse molto più basse sui profitti realizzati all’estero.

170 miliardi da incassare

Eni, partecipata al 25,7 per cento da Cassa depositi e prestiti e al 4,3 per cento direttamente dal ministero dell’economia e delle finanze che ne incassa regolarmente i generosi dividendi e il cui personale passa senza soluzione di continuità dall’azienda petrolifera al ministero degli affari esteri e viceversa, secondo una simulazione realizzata dal nuovo osservatorio sulla tassazione europea, presentato ieri dal commissario agli affari economici Paolo Gentiloni, potrebbe pagare al fisco italiano molto di più se solo esistesse una imposta minima sui profitti realizzati anche all’estero come da proposta del presidente statunitense Joe Biden.

L’osservatorio nato in collaborazione con la Paris School of economics ha pubblicato uno studio basato sull’ipotesi di una imposta minima sui profitti di impresa calcolati paese per paese pari al 25 per cento, tre punti percentuali rispetto all’aliquota che il presidente  Biden vuole imporre alle aziende statunitensi e in patria, ma quattro punti in più della sua prima proposta di una imposta minima globale del 21 per cento.

Lo studio stima che se le società che hanno il loro quartier generale nell’Unione europea pagassero sui loro profitti una aliquota minima al 25 per cento, i Paesi Ue incasserebbero 170 miliardi in più, che è più della metà dell’attuale raccolta totale e che ammonta a ben il 12 per cento della spesa sanitaria dei paesi dell’Unione, giusto per non dimenticarsi la pandemia in corso. Se a questo si aggiungesse anche la possibilità di incassare almeno una porzione delle tasse non pagate dalle multinazionali non europee, allo stesso livello minimo, allora il totale arriverebbe a oltre 200 miliardi. 

L’analisi sulle aziende che hanno fornito il rapporto sui loro profitti realizzati paese per paese è più precisa. Il divario tra la situazione attuale e quella in cui c’è una imposta comune Ue al 25 per cento, porterebbe una società come Enel che nel 2019 ha pagato in Italia 1,9 milioni di euro di imposte a versare 356 milioni in più, colmando un gap del 18,3 per cento. Eni invece pagherebbe il 3,6 per cento in più, con un aumento di 171,5 milioni di euro sui 4,7 milioni del 2019. Intesa San Paolo dovrebbe colmare un gap del 40,8 per cento, pagando  672 mila euro rispetto agli 1,6 milioni del 2019, mentre il conto di Unicredit lieviterebbe di circa 292mila euro, con un aumento di quasi il 32 per cento su 901 milioni. 

L’ipotesi del 15 per cento

Ma quello che è interessante è che i dati messi a disposizione dall’osservatorio permettono di visionare nel dettaglio dove le nostre aziende non pagano e di simulare  anche gli effetti di altri livelli di aliquota, più realistici rispetto all’ultima proposta (al ribasso) del 15 per cento rilanciata dagli Stati. Per esempio il tasso di imposta effettivo che Eni paga in Kazakistan, dove colleziona lauti profitti, è al 19 per cento. Mentre  in Ghana, Jersey, Singapore, Brasile e Bermuda, è addirittura zero. E pure in Slovenia è sotto il livello del 15 per cento.  

Cambiare la prospettiva

Il cambio di prospettiva non è da poco. Sull’argomento imposizione fiscale ci sono complessi negoziati in corso, in sede Ocse, e anche all’interno della stessa Ue. Ma ci sono paesi dell’Unione, dall’Irlanda al Lussemburgo che oppongono forte resistenza. Mentre pochi giorni fa le agenzie hanno battuto la notizia che una prima intesa potrebbe essere trovata dai paesi del G7 in modo che i leader dell’economia globale diano l’esempio.

 L’idea proposta dell’osservatorio Ue va esattamente nella stessa direzione: le maggiori economie dell’Eurozona, a partire da Germania, Francia e Italia, possono fare da apripista, allineandosi alle proposte dell’amministrazione americana. 
«La spirale della competizione internazionale sulla tassazione può essere fermata anche se i paradisi fiscali non aumentano le loro imposte e l’Unione europea può essere leader globale di questo processo», si legge nello studio. Prima, dunque, le multinazionali italiane.

 

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