I dati aggregati, e soprattutto settoriali, relativi all’inflazione post pandemica hanno messo in luce una significativa crescita dei margini di profitto. Il fenomeno è presente da tempo nella maggior parte dei paesi avanzati e dei settori produttivi, anche se appare più marcato in alcuni paesi (Stati Uniti e Regno Unito ad esempio) e in alcuni settori (agroalimentare, energetico, costruzioni, ristorazione, turismo).

Recentemente Fabio Panetta ha affermato che «i profitti unitari hanno contribuito per più di metà della pressione inflazionistica interna nell’ultimo trimestre del 2022», mentre Ignazio Visco ha mostrato come da alcune stime risulti che i margini di profitto in Germania, nel corso del 2022, sono cresciuti parecchio nel settore delle costruzioni e in alcuni comparti dei servizi non esposti non tradables (tra cui trasporti, commercio al dettaglio, turismo), mentre in Italia, dopo gli aggiustamenti conseguenti alla pandemia, sembrano essere tornati al livello pre-pandemico.

Come sempre, in presenza dell’andamento congiunto di due variabili, i profitti e l’inflazione, la domanda è se siamo in presenza di un’inflazione da profitti (dove l’aumento dei profitti è una delle concause dell’aumento dei prezzi) o in presenza di profitti da inflazione (l’aumento dei prezzi porta con sé anche un aumento dei profitti). La risoluzione dell’enigma ha, naturalmente, conseguenze importanti, per ragioni distributive, equitative e per l’impostazione di una corretta politica antinflazionistica. Purtroppo, l’enigma è intricato e difficile da risolvere in maniera generale. Qui proviamo a fornire alcuni elementi che possono aiutare a mettere in ordine le idee.

La struttura del mercato

Per cominciare, la base di calcolo del profitto è naturalmente la differenza tra ricavi (prezzo unitario x quantità venduta) e costi (lavoro, energia, altri beni intermedi), corrispondente (circa) al cosiddetto margine operativo lordo (MOL). Se i costi e i prezzi di vendita crescono entrambi dell’x per cento e l’impresa continua a vendere la stessa quantità, anche il suo MOL aumenta di x per cento. Questo è il caso (più semplice) di trasferimento integrale dei costi sui prezzi. Possiamo dire che l’aumento del MOL di questa impresa causa l’inflazione? Una ragione per rispondere di no è che l’impresa sta trasmettendo al prezzo non più dell’aumento di costi che subisce.

Nel racconto precedente c’è un’ipotesi cruciale: l’invarianza della quantità venduta dall’impresa, dopo l’aumento di prezzo e costi. Ipotesi che rimanda a una questione fondamentale: qual è la struttura del mercato in cui opera l’impresa? La relazione tra prezzo e vendite dipende dall’elasticità della domanda della propria clientela, dal numero e dai prezzi delle imprese concorrenti.

Per ottenere il massimo profitto, ciascuna impresa può fissare il prezzo applicando un margine (mark-up) al di sopra dei costi unitari in proporzione al suo potere di mercato, determinato dall’elasticità della domanda e dal numero dei concorrenti. In questo tipo di mercati due fattori possono far aumentare parallelamente costi, prezzi e profitti: un aumento della domanda al netto dell’aumento del prezzo o un aumento del potere di mercato e quindi del mark-up stesso. Cosa osserviamo a tal proposito?

In primo luogo, per verificare l’ipotesi dell’inflazione da profitti occorre utilizzare non il MOL in assoluto ma un indicatore del mark-up, come ad esempio il rapporto MOL/Costo unitario di produzione (CUP). Glover et al. (2023) trovano che negli Stati Uniti il contributo alla dinamica dei prezzi finali dovuto all’aumento dei mark-up così definito è stato del 50 per cento nel 2021, ma è diminuito nel 2022. Va notato, tuttavia, che l’indicatore utilizzato da questi autori è aggregato e quindi non coglie le diverse dinamiche settoriali che possono generare inflazione complessiva.

Inflazione settoriale

Il potere di mercato è assai diverso nei diversi settori dell’economia e scaturisce da storie passate molto diverse. In alcuni settori, quelli regolati (come l’energia o i trasporti pubblici) il mark-up è controllato (e garantito) proprio dal regolatore pubblico con vari strumenti, dalla limitazione all’entrata di nuove imprese (concessioni) alle formule per l’adeguamento dei prezzi alle variazioni dei costi, ecc.

Con la pandemia e la guerra in Ucraina sono aumentati i costi di materie prime, energia e prodotti intermedi, e si sono avute interruzioni dell’offerta, con ricadute eterogenee sui vari settori, provocando squilibri di diversa entità da settore a settore tra la domanda (in ripresa dopo la pandemia) e l’offerta.

Inoltre, la domanda si è trasferita dai settori a offerta bloccata a quelli dove l’offerta poteva con minori difficoltà soddisfare la domanda. E tutto questo senza che la domanda aggregata, anche negli Usa, eccedesse il trend storico, e quindi l’offerta aggregata potenziale (come hanno documentato J. Stiglitz e I. Regmi (2023).

Quindi possono esservi settori dove, per le dette, si produce un eccesso locale della domanda sull’offerta o, ancora, dove l’elasticità della domanda al prezzo del settore è bassa (energia) oppure non è costante ma prociclica (come l’alimentare, dove via via che il prezzo aumenta la domanda si irrigidisce e il margine ottimale perciò aumenta). In questi settori gli aumenti dei costi possono tradursi in aumenti dei prezzi superiori a quelli dei costi. Si avrà così un’inflazione settoriale da profitti che, con ritardi variabili, si trasmette attraverso la matrice input-output agli altri settori dell’economia (e da questi indietro a quelli dove si è originata), facendo aumentare l’inflazione complessiva.

Se l’inflazione che stiamo vivendo ha le caratteristiche sopra tratteggiate appare molto difficile riportarla sotto controllo solo con gli aumenti del tasso di interesse, che operano attraverso la riduzione della domanda aggregata, quindi limitando la crescita e anche creando disoccupazione.

Aumentare i tassi resta fondamentale per abbassare le aspettative di inflazione, drenare la liquidità in eccesso e, quindi, contrastare eventuali eccessi di domanda aggregata. Ma quando l’inflazione è, in misura significativa, dovuta a squilibri settoriali e potere di mercato (quindi nasce dal lato dell’offerta), affidarsi solo all’aumento dei tassi fa salire il costo della disinflazione a livelli troppo elevati.

Tassare i profitti straordinari dei produttori di energia non riduce la pressione inflazionistica. Si richiede invece un accordo tra tutti i soggetti che già oggi spingono l’inflazione (le imprese con i loro margini crescenti, i governi con l’Iva e la regolazione) o che potrebbero cominciare a spingerla per recuperare il potere d’acquisto perduto (sindacati e lavoratori).

Dunque, una politica dei redditi ma non solo per tenere a freno l’inflazione salariale (oggi, in Europa, ancora inferiore a quella generale). Si richiede un accordo multilaterale, in cui le imprese (specie quelle protette dalla concorrenza internazionale) si impegnino a tenere fermi (o meglio ridurre) i margini e i governi, da un lato, accrescano l’efficacia delle politiche pro-concorrenziali, riformino la regolazione di alcuni settori (specie se permette troppo generosi passthrough dei costi) e dall’altro prevedano aliquote Iva inversamente correlate ai costi di produzione nei settori dell’energia, dei carburanti e dei prodotti alimentari. Si tratta di ripensare (in maniera innovativa) a quanto suggerito già trenta anni fa da Ignazio Visco e Fabrizio Barca con riferimento all’Italia, nonché all’intuizione di Ezio Tarantelli, secondo cui una politica dei redditi generalizzata contribuisce ad abbassare le aspettative di inflazione e coadiuva la politica monetaria.


Una versione più estesa di questo articolo è comparsa su Menabò di etica ed economia, n. 192/2023

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