Potrà sembrare strano, ma l'obiettivo europeo, e tra poco forse anche americano, di azzerare le emissioni di gas serra entro il 2050 per contrastare il cambiamento climatico pesa realmente sulla trattativa per il nuovo contratto dei metalmeccanici che inizierà la prossima settimana. Si tratta di adeguare ai nuovi scenari il lavoro del milione e mezzo di tute blu, di 100 mila imprese che producono una ricchezza pari all’8 per cento del Pil italiano. La quarta rivoluzione industriale, quella degli algoritmi, cambierà la fabbrica e i profili professionali. Serve un sistema per la formazione delle nuove professionalità.

Non bastano le pillole

I soldi necessari si possono ottenere dal Recovery fund per il “Fondo nazionale nuove competenze" appena istituito. Ciò che manca è quella direzione di marcia che ai metalmeccanici non è mai dispiaciuto indicare nell’ultimo mezzo secolo. Imprese e sindacati si avviano alla tornata contrattuale con un chiaro fronte di conflitto sui livelli salariali, ma sulla formazione non vanno per ora molto al di là delle parole d'ordine. 

Eppure all'Italia, per restare il secondo paese manifatturiero d’Europa servirà qualcosa di più ambizioso delle “pillole formative” di cui parla Federmeccanica. Sarà arduo continuare ad appuntarsi sul petto la medaglia d’argento con un livello di alfabetizzazione degli adulti pari o solo poco superiore a quello della Bulgaria.

Il tema della formazione permanente, quella dei lavoratori adulti, è dunque cruciale. Non solo per chi cerca un lavoro, ma anche per chi ce l’ha e non sa se lo manterrà, magari riqualificandosi, o sarà spodestato da un nuovo macchinario.

La dotazione che serve per il futuro

Il tema è concreto e immediato. Il report “The Future of Jobs” del World economic forum di Davos spiega che anche l’impatto del Covid sull’occupazione sarà correlato alla diffusione delle nuove competenze. E avverte proprio le imprese italiane: aumentare giusto un po’ il livello di inglese e di informatica delle maestranze non basterà. Servirà piuttosto una dotazione non tanto di sapere tecnico quanto di «pensiero critico, analitico, capacità di risoluzione di problemi complessi, disponibilità all’apprendimento continuo, flessibilità, creatività», un terreno sul quale la pagella dei lavoratori italiani, nonostante le rinomate capacità nazionali d'improvvisazione, non è buona.

Inoltre esiste una spirale da cui ci mette in guardia l’Ocse (l’organizzazione dei paesi più sviluppati): se il lavoro è  malpagato, precario e qualitativamente povero, le competenze tendono a diminuire ulteriormente e il potenziale umano si disperde. Non basta  aver aumentato il telelavoro, chiamandolo pomposamente smart working, per colmare i divario rispetto ai paesi più avanzati. Lo sforzo dei lavoratori nell'emergenza Covid è stato intenso, spesso in autoapprendimento, senza aiuto dalle aziende, come ha evidenziato una indagine della Fiom-Cgil sui propri iscritti durante il lockdown.

Ma l'ultimo digital economy and society index europeo stima che solo il 42 per cento degli italiani tra i 16 e i 74 anni abbia un'infarinatura di conoscenze informatiche di base. La Commissione europea calcola che  il lockdown abbia provocato un balzo dell'e-commerce pari a quello prima ipotizzabile in cinque anni. Ma rimane il fatto che, secondo Bruxelles, i posti di lavoro messi a rischio a breve termine dal Covid sono in gran parte sovrapponibili a quelli minacciati dai processi di automazione a lungo termine. E l’Italia resta in coda nella classifica per digitalizzazione, soprattutto nelle piccole e medie imprese.

Secondo uno studio di PricewaterhouseCoopers, multinazionale della consulenza strategica, già oggi nelle catene di assemblaggio delle aziende più competitive non sono una rarità capisquadra che analizzano diagrammi di Pareto e addirittura «prendono iniziative di risoluzione dei problemi», quasi fossero ingegneri di produzione o di progettazione. In confronto, l’immagine di Gian Maria Volonté alle prese con la pressa nel film La classe operaia va in paradiso (Elio Petri, 1971) potrebbe sembrare un reperto ingiallito. E invece in Italia quella condizione di alienazione c'è ancora, specialmente nel tessuto di piccole e piccolissime fabbriche nate come costole e fornitrici delle grandi, spesso spin-off di ex operai che, dopo aver rilevato vecchi macchinari dalla casa madre, raramente si sono avventurati in investimenti nell'innovazione e ancor meno nella formazione del personale.

Così il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha recentemente rispolverato vecchi "attrezzi contrattuali" risalenti a cinquant’anni fa, al varo dello Statuto dei lavoratori e al contratto dei metalmeccanici, il primo unico per operai e impiegati. Uno di questi “attrezzi” sono le cosiddette “150 ore”, primo strumento della formazione continua introdotto proprio dalla legge 300 del 1970. Le 150 ore  sono servite a un milione di  metalmeccanici per conseguire la licenza media. L'idea fu partorita, dopo aver studiato l’esperienza francese, dall'allora segretario generale della Fiom Bruno Trentin, l'uomo che rivendicava come primo diritto del lavoratore nella contrattazione proprio quello alla formazione. All’origine il meccanismo prevedeva un congedo retribuito di 150 ore all'anno per qualsiasi percorso di studio.

«All’epoca», ricorda Saul Meghnagi, pedagogo, a lungo presidente dell’Istituto superiore per la formazione, struttura della Cgil per la qualificazione dei propri quadri, «c’era addirittura, non dico un veto, ma una sostanziale ostilità del sindacato all’utilizzo del pacchetto orario per corsi di formazione professionale». Rimase celebre un botta e risposta sulla rivendicazione delle 150 ore: «Per studiare cosa? Gli operai non vorranno mica studiare il clavicembalo?», «Sì, se lo vogliono, anche il clavicembalo». Fiorella Farinelli, esperta di didattica per gli adulti, rammenta che il logo del clavicembalo figurava allora sui volantini come simbolo di autonomia e come declinazione dello slogan «l’immaginazione al potere».

«Una grande occasione»

Invece la concertazione tra le parti sociali strutturò poi la formazione permanente nei luoghi di lavoro attraverso i fondi inter-professionali bilaterali e le regioni, titolari delle politiche attive per il lavoro. Ma il sistema si incagliò in meccanismi burocratici e spesso spartitori. Di fatto oggi l’Italia non dispone, a differenza di paesi come la Francia e la Germania, di un vero sistema della formazione lungo tutto il percorso di ciascun lavoratore, né tanto meno di agenzie di verifica. E stentano a decollare anche i Centri per l’impiego che dovrebbero occuparsi della riqualificazione e ricollocazione di chi perde il lavoro.

Lo strumento che potrebbe fare la differenza è il «Fondo nazionale nuove competenze», inserito dal ministero del Lavoro nel decreto Rilancio dello scorso agosto. È stato pensato per mettere a sistema i fondi strutturali europei per la formazione, quelli del Recovery plan, i fondi interprofessionali e quelli regionali, e finanziare con denaro pubblico una riduzione di orario di lavoro che permetta l’aggiornamento dei lavoratori il cui posto di lavoro è minacciato dalle trasformazioni in atto.

«È una grande occasione se non viene considerato un ammortizzatore sociale aggiuntivo», avverte Andrea Ranieri, sindacalista di lungo corso e uno dei massimi esperti di formazione permanente, «il lavoratore ha il diritto di avere un suo percorso formativo anche al di là della mansione svolta per non morire in una azienda decotta». Nella sua visione il «Fondo nazionale nuove competenze» dovrebbe aiutare a mettere in campo tutte le risorse necessarie ad andare verso un’economia circolare e verso produzioni “green”. «Però bisogna aver chiaro quali sono le priorità della formazione»,  aggiunge, «È un tema complesso e non so se il sindacato sia in grado di tradurre queste priorità in progetti concreti nei territori. Magari bisognerebbe prevedere un delegato alla formazione in ogni azienda come c’è il delegato alla sicurezza».

La formazione nel contratto

Nell'ultimo contratto dei metalmeccanici, firmato nel 2016 da Landini quando ancora era segretario della Fiom, oltre a stabilire il diritto soggettivo del lavoratore alla formazione, si è istituito un pacchetto di 24 ore annue retribuite per la formazione in azienda. Francesca Re David, che è succeduta a Landini, ammette: «Le 24 ore non sono state utilizzate quasi da nessuna impresa. Noi ora chiediamo nel nuovo contratto un trascinamento delle ore non utilizzate fino al loro raddoppio».

Si vedrà nella trattativa non stop del 2,3 e 4 febbraio se la controparte, Federmeccanica e Assistal, accetterà la proposta o se il negoziato non riuscirà ad andare oltre i nodi più tradizionali dell’adeguamento salariale. Re David è decisa: «La formazione si lega all’altra questione dirimente, quella dell’inquadramento unico tra impiegati e operai».

In gioco c'è infatti il riconoscimento delle competenze acquisite in fabbrica, un nodo complicato per lo stesso sindacato. «Rappresentiamo lavoratori ipertecnologici ma anche addetti a produzioni molto tradizionali», ammette la segretaria della Fiom. La scommessa è decisiva. Per il salto culturale e organizzativo che servirebbe a prevenire una stagnazione epocale, il contratto dei metalmeccanici potrebbe rappresentare, come è stato in passato, il punto di svolta o solo l'ennesima occasione perduta.

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