Quando si parla di lavoratori poveri e con bassi salari ci si riferisce, generalmente, a coloro che in un determinato anno percepiscono retribuzioni particolarmente limitate. È poi frequente osservare la dinamica nel corso del tempo del numero o della quota di lavoratori che si trovano in queste condizioni.

Tutto ciò è molto rilevante ma, come si è già argomentato su Domani, è importante anche sapere se la condizione di lavoratore povero tenda a essere persistente perché il disagio che ne deriva dipende anche dal carattere persistente o temporaneo di quella condizione. E tra i problemi che la persistenza può creare vi è anche quello di accrescere il rischio di un’accumulazione limitata di contributi a fini pensionistici.

Ciò è particolarmente rilevante in Italia dove gli entrati in attività dal 1996 in poi riceveranno una pensione interamente contributiva – calcolata cioè in proporzione ai contributi versati lungo l’intera carriera – e, quindi, un’accumulazione contributiva molto limitata può dar luogo a una “pensione da fame”.

Ma quanti saranno i lavoratori a rischio di “pensioni da fame” in futuro? Un’analisi contenuta nel Rapporto sullo Stato Sociale 2022 (a cura di F.R. Pizzuti, M. Raitano e M. Tancioni, Sapienza University Press), prova a dare una risposta a questa domanda facendo uso di un dataset amministrativo di fonte Inps che consente di osservare le storie lavorative di un ampio campione di iscritti all’Inps (restano esclusi solo dipendenti pubblici e libero professionisti, con probabile lieve sovrastima dei rischi di fragilità delle carriere).

Pensioni da fame

I risultati sono assai preoccupanti. Anzitutto definiamo le “pensioni da fame” come le pensioni che non raggiungeranno la soglia della povertà relativa per un single fissata dall’Eurostat. Si tratta di circa 900 euro lordi al mese e questo – in termini reali – sarebbe l’ammontare della pensione che una persona che guadagnasse per tutta la vita, come dipendente, il 60 per cento del salario mediano (attualmente, in termini reali, circa 11.700 euro lordi annui, retribuzione simile a quella di molti dipendenti part time) otterrebbe a 69 anni, dopo 45 di lavoro.

Prendendo come riferimento questo lavoratore e il montante contributivo che avrebbe accumulato dopo 20 anni possiamo calcolare il numero di lavoratori che, nello stesso lasso di tempo, hanno accumulato meno e quindi sono a rischio di “povertà relativa di accumulazione contributiva”, cioè di ricevere al pensionamento, in mancanza di sensibili miglioramenti nella carriera residua, una prestazione di importo inferiore alla soglia della povertà relativa. Dall’analisi risulta che ben il 51,1 per cento dei lavoratori (più precisamente: il 60,9 per cento fra le donne e il 44,1 per cento fra gli uomini) si trova in questa condizione.

Questa è la conseguenza del fatto che molti di coloro che sono entrati in attività fra il 1996 e il 1998 in un elevato numero dei 20 anni successivi non hanno percepito alcuna retribuzione o solo una retribuzione da low pay (inferiore alla soglia del 60 per cento della mediana), e, quindi, non hanno potuto accumulare contributi adeguati.

Più precisamente, il 46,5 per cento di essi (il 55,6 per cento tra le donne e il 38,3 per cento tra gli uomini) si è trovato in questa condizione per almeno 10 dei 20 anni. In aggiunta, solo il 43,1 per cento di questi individui (37,5 per cento fra le donne, 46,9 per cento fra gli uomini) dopo 20 anni di carriera ha raggiunto un’anzianità contributiva di almeno 16 anni.

Come detto, la distribuzione del montante accumulato, rispetto all’accumulazione di dipendenti rappresentativi, restituisce un quadro ancora più fosco. Dai dati si osserva, inoltre, che – nonostante le nuove coorti di lavoratori abbiano, in media, livelli di istruzione più elevati di quelle più anziane – solo il 27,8 per cento del campione (19,1 per cento fra le donne e 33,9 per cento fra gli uomini) ha ottenuto nei 20 anni un risultato migliore di una persona sempre occupata come dipendente con un salario lordo reale intorno ai 19.500 euro.

A rischio di pensione bassa

Un ulteriore motivo di preoccupazione nasce dalla osservazione di come le dinamiche stanno evolvendo fra coorti, in particolare per quelle maggiormente esposte alla crisi dello scorso decennio. A questo scopo restringiamo il periodo di osservazione da 20 a 10 anni e confrontiamo le carriere di coloro che sono entrati in attività fra il 1996 e il 2008. Se anche ci limitiamo a considerare il solo sottogruppo degli occupati per almeno 5 anni su 10, risulta che la quota di individui “a rischio di futura pensione bassa” cresce dal 40,1 per cento della coorte 1997 al 54,2 per cento della coorte 2008 (e valori presumibilmente ancora più alti riguardano le coorti successive, non osservabili per un intero decennio con i dati a disposizione).

Quest’analisi, che è proiettata su un orizzonte temporale di medio e lungo periodo, porta, quindi, alla duplice conclusione che le carriere fragili sono molto diffuse e che il rischio di ricevere pensioni che porranno i percettori in condizione di povertà relativa è molto alto. E la situazione potrebbe essere ancora peggiore perché non si è potuto tenere conto degli effetti, soprattutto sulle coorti più giovani, dell’emergenza Covid-19. D’altro canto, non vi è da nutrire molta fiducia nella possibilità che si verifichi un miglioramento significativo nella parte residua delle carriere, in grado di dare soluzione al problema.

Il contributivo

È, dunque, urgente ragionare su come modificare la formula contributiva in modo da garantire chi dovesse avere carriere lunghe ma sfavorevoli quantomeno contro i rischi più gravi di futura povertà. Il contributivo, con la sua logica attuariale e le sue tecnicalità, rappresenta una buona cornice per definire i criteri di fondo del sistema previdenziale, ma la sua applicazione non implica che non ci si possa allontanare, in modo trasparente, dalle sue regole rigide per far fronte a situazioni che comportano rischi di prestazioni particolarmente insufficienti.

Peraltro, per i “lavoratori fragili” la previdenza privata non può rappresentare una risposta; è, infatti, molto poco plausibile che un lavoratore povero possa risparmiare quanto occorre per garantirsi redditi più elevati da anziano. Questa esigenza va posta a carico del sistema pubblico, all’interno del quale, come da anni proposto da chi scrive, andrebbe introdotta una “pensione di garanzia”.

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