John Elkann si presenta mercoledì in parlamento per fare il punto sulla situazione di Stellantis in Italia. Il presidente del gruppo – e attuale guida operativa ad interim dopo l’uscita dell’ex ad Carlos Tavares – riproporrà probabilmente il cosiddetto “piano Italia” presentato a dicembre al tavolo automotive, piano che prevede nel 2025 due miliardi di investimenti.

Difficilmente però potrà fornire novità tali da invertire una tendenza negativa che ha portato le fabbriche italiane sull’orlo del collasso, tanto più in quanto il dimissionario Tavares non è ancora stato sostituito. Intanto il piano presentato venerdì scorso al tavolo automotive dal titolare del Mimit, Adolfo Urso, sembra indicare che il governo ha già abbandonato il settore al suo destino.

Il minimo storico

L’anno scorso Stellantis ha prodotto in Italia 283mila auto, minimo dagli anni Cinquanta; a gennaio ne sono uscite dalle fabbriche 10.800, poco più di un terzo del livello del gennaio 2024. La crisi del gruppo, che ha visto cali di vendite e produzione in tutta Europa, è particolarmente pesante in Italia: secondo una tabella pubblicata di recente dagli analisti di Bernstein SG, a parte Pomigliano, gli stabilimenti italiani del gruppo sono quasi fermi: l’utilizzo della capacità produttiva è stato nel 2024 del 17 per cento a Melfi, 12 a Cassino, 9 a Mirafiori, contro una media di Stellantis Europe – già bassa rispetto ai concorrenti e ai livelli storici – del 47 per cento.

Elkann ribadirà probabilmente l’impegno, già preso da Tavares alla nascita di Stellantis, a non chiudere fabbriche in Italia e non licenziare lavoratori; un impegno nella sostanza vuoto, visto che il numero di dipendenti in Italia è stato ridotto in quattro anni drasticamente: oltre 5mila in meno nei soli stabilimenti di assemblaggio, secondo i dati Fim Cisl; contando produzione di motori, impiegati e tecnici delle strutture centrali, si arriva a 10mila esuberi in 4 anni.

Nel solo 2024 Stellantis ha speso 1,6 miliardi di euro per incentivare dimissioni fra Europa e Stati Uniti. In questo contesto, le voci su uno spostamento delle residue produzioni Maserati da Mirafiori allo storico stabilimento di Modena non cambiano la situazione. Pesa molto di più, dal punto di vista strategico, lo stop alla costruzione della gigafabbrica di batterie che avrebbe dovuto sorgere a Termoli.

Il futuro

Con una Stellantis alla deriva, quali le prospettive a breve e medio termine per il nostro paese? La strategia del governo resterà con ogni probabilità quella di rifinanziare i lunghissimi periodi di cassa integrazione per le fabbriche Stellantis e per i casi più eclatanti dell’indotto.

Al tavolo automotive di venerdì, Urso ha annunciato una strategia che di fatto si traduce in un’eutanasia del settore. Basta incentivi alla produzione e alla vendita di auto in Italia, via ad aiuti alla riconversione di aziende e dipendenti in settori definiti “più promettenti”.

Niente più Ecobonus: «Abbiamo chiesto all’Europa che un piano incentivi alla domanda sia realizzato, invece, a livello continentale». Tradotto dal politichese: non abbiamo più soldi e comunque non vogliamo metterli; se Bruxelles vuole incentivare la transizione verde, i soldi li metta lei. Giorgia Meloni e soci continuano anzi la battaglia di retroguardia contro le auto elettriche.

Urso ha detto venerdì che «per valorizzare le competenze dei lavoratori dell’automotive, il ministero supporterà le aziende della filiera nella diversificazione e riconversione delle attività verso settori in crescita, come difesa, aerospazio, blue economy e cybersicurezza». I fondi – 2,5 miliardi di euro nel triennio 2025-27 – andranno alla riconversione della componentistica, di cui 1,6 miliardi nel 2025 tra innovazione, contratti di sviluppo e credito d’imposta.

A questo scopo verranno reindirizzati anche i fondi inizialmente destinati alla fabbrica di batterie di Termoli. Il governo italiano evidentemente sa che la filiera dei motori a scoppio non ha un futuro nel lungo periodo, ma la discutibile diversificazione verso il militare sembra essere la sua unica soluzione.

Secondo Francesco Zirpoli, direttore scientifico del Center for Automotive and Mobility Innovation dell’università Ca’ Foscari Venezia, «abbandonare lo sviluppo dell’auto e della transizione verde sarebbe un errore fatale per l’industria italiana per le ricadute tecnologiche, il valore economico generato, i livelli occupazionali che l’automotive può garantire. L’idea che un potenziamento dell’industria della difesa e dell’aerospazio compenserebbe tale perdita non fa i conti con la realtà e rischia di accelerare il declino di uno dei pochi comparti manifatturieri ancora forti in Italia».

Cina ben voluta, anzi no

La strategia governativa produce a volte risultati paradossali. Un esempio è quello del rapporto con la Cina. L’estate scorsa Urso aveva svelato negoziati con più di un’azienda cinese per un possibile sbarco produttivo in Italia (erano stati fatti i nomi di Byd e DongFeng); nel frattempo però l’Unione europea ha alzato i dazi sulle auto elettriche in arrivo da Pechino, e Roma è stata uno dei più vivaci sostenitori della misura.

Risultato: Byd sta costruendo fabbriche in Ungheria e Turchia, la Chery ne ha aperta una in Spagna, e la stessa Byd ha ventilato l’ipotesi di avviarne una terza in Germania (secondo l’agenzia Reuters).

Berlino, per motivi tedeschi di politica industriale, si è infatti opposta all’incremento dei dazi europei. Il consulente di Byd per l’Europa, l’ex manager Fiat Alfredo Altavilla, ha lasciato la porta aperta a un investimento in Italia, avvertendo però che «sarà difficile localizzare uno stabilimento in Paesi che non sono amichevoli nei confronti delle auto cinesi».

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