Niente entrata in vigore dal 1° luglio ma un rinvio di altri sei mesi, a gennaio 2026. E, a conti fatti, è la proroga numero otto. Con una mossa in extremis, venerdì il Consiglio dei ministri ha rimandato al prossimo anno l’applicazione della sugar tax, la tassa sulle bevande zuccherate introdotta dal governo Conte II – era il 2019 – e mai diventata operativa. Una misura osteggiata dalle imprese del settore, su cui ricadrebbe gran parte dei costi, e che avrebbe portato nelle casse dello stato entrate per oltre 140 milioni.

La decisione è arrivata dopo settimane di trattative che hanno creato tensioni nel governo, con Forza Italia che sperava nell’abolizione dell’imposta o in un posticipo «di dodici mesi». Un’ipotesi alla fine cassata per mancanza di coperture. A cantare vittoria, quindi, è stata soprattutto la Lega, con il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari che ha elogiato «la concretezza del ministro Giorgetti». Per il partito di Antonio Tajani l’obiettivo resta abrogare la tassa in autunno, nella legge di Bilancio.

Contro lo zucchero

La norma, inserita nella manovra 2020, punta a ridurre il consumo di zuccheri e a promuovere abitudini alimentari più sane, in linea con quanto già fatto in altri paesi europei. Per questo, prevede l’applicazione di una tassa alle bevande analcoliche con edulcoranti aggiunti: 10 centesimi per litro per i prodotti finiti e 25 centesimi per chilo per quelli utilizzati previa diluizione. Sarebbero così colpite le bevande gassate (Coca-Cola, aranciata, chinotto), i tè zuccherati, le bibite energetiche e i succhi di frutta.

La misura intende scoraggiarne il consumo per ridurre il rischio di obesità e altri disturbi, e limitare l’impatto di queste patologie sul sistema sanitario nazionale. In effetti, si tratta di prodotti che favoriscono l’insorgenza di diabete e infarto: uno studio dell’American diabetes association ha rivelato che il consumo di una o due bevande dolci a pasto aumenta del 26 per cento la possibilità di avere una forma di diabete. Per ogni bibita zuccherata assunta al giorno il pericolo di sviluppare malattie cardiache cresce poi del 10 per cento.

Le ricerche condotte finora segnalano la sostanziale efficacia della tassa, ma i giudizi non sono unanimi e non mancano critiche sotto diversi aspetti. In particolare, chi contesta la norma la giudica un’imposta regressiva, il cui impatto economico pesa soprattutto sulle fasce di reddito basse. Un argomento che può anche essere rovesciato: disincentivando il consumo di un bene dannoso per la salute si crea un vantaggio proprio a chi è più colpito dalla misura.

Fare lobbying paga

La scelta del governo di rinviare la sugar tax è una concessione alle imprese del settore, artefici di forti pressioni (e dure campagne social) che già avevano contribuito a ritardarne l’introduzione per ben sette volte. Assobibe, l’associazione parte di Confindustria che riunisce marchi come Coca-Cola, Red Bull e Sanpellegrino, stima infatti che la tassa porterebbe a una contrazione delle vendite del 16 per cento, con tagli agli investimenti e ai posti di lavoro.

Oggi le aziende sono quindi soddisfatte, ma solo in parte. Negli ultimi tempi, del resto, si sono trovate nell’incertezza, schiacciate tra le voci che davano per certo il rinvio dell’obbligo e la necessità di far partire in anticipo gli adempimenti burocratici previsti nel caso la tassa fosse davvero scattata il 1° luglio. Costi e complessità evitabili se il governo non avesse aspettato il 20 giugno per approvare il decreto di rinvio e quindi bloccare la relativa burocrazia.

«Il comparto è fatto da piccole e medie imprese che producono eccellenze del Made in Italy come aranciate e cedrate. Con la sugar tax si mettono a rischio 5.500 posti di lavoro», ha lamentato Giangiacomo Pierini, presidente di Assobibe. La preoccupazione è condivisa da tante sigle, da Confagricoltura a Coldiretti, e anche dai sindacati, per cui «non si promuove la salute tassando il lavoro»; per la Uila Uil c’è il rischio di «una riduzione dei consumi e dell’export, con ricadute negative su produzione e occupazione».

Le conseguenze sarebbero pesanti in particolare nel Sud Italia. A tale proposito, i sindacati citano la situazione della Sicilia, dove la filiera agrumicola riveste un’importanza cruciale. Nello stabilimento Sibeg di Catania (che produce e distribuisce le bevande del marchio Coca-Cola), Flai Cgil e Uila Uil hanno appreso che 200 posti di lavoro sarebbero in pericolo a causa della tassa. Questo almeno dicono i vertici aziendali. Come accade in casi simili, è una stima difficile da smentire e quindi molto persuasiva per chi decide a Roma.

C’è chi dice sì

L’ennesimo rinvio della tassa era stato proposto durante l’esame del decreto Milleproroghe tramite alcuni emendamenti presentati da Forza Italia al Senato. Nell’ultima manovra, invece, il governo aveva dato parere favorevole a un ordine del giorno del deputato azzurro Raffaele Nevi, che chiedeva di predisporre gli interventi necessari per posticiparne l’attuazione. A puntare sul rinvio della tassa «per almeno un anno» era poi stato soprattutto il vicepremier Tajani, che alla fine si è dovuto arrendere alla scelta del Mef.

Di parere opposto era invece il Partito democratico, che spingeva per l’applicazione immediata della norma e pochi giorni fa ha presentato una proposta di legge per una sugar tax più restrittiva. Sette articoli in tutto che prevedrebbero etichette più chiare per evidenziare la presenza di zuccheri «in prodotti insospettabili come il pane in cassetta e i sughi pronti», ha detto Eleonora Evi, prima firmataria del testo, oltre all’insegnamento dell’educazione alimentare fin dalla scuola materna.

Ma il cuore delle legge – subito bollata da destra come «il nuovo obolo della sinistra» – è una sugar tax «a scaglioni», cioè proporzionata alla quantità di zucchero presente nelle bibite: più sono dolci e maggiore sarebbe l’aliquota applicata alle aziende. «La nostra ricetta prevede un’imposta di 2 centesimi per litro per i prodotti che contengono da 5 a 7,99 grammi di zucchero, su su fino a 30 centesimi per quelli previa diluizione», ha spiegato Marco Furfaro, capogruppo dem in commissione Affari sociali alla Camera.

La proposta segue l’esempio virtuoso del Regno Unito, dove dal 2018 è in vigore la soft drinks industry levy, che si basa su un meccanismo analogo. Una tassa così fatta non si scarica sui consumatori ma resta sui produttori, che sono spinti a ridurre il contenuto di zuccheri. E, in effetti, in Gran Bretagna alcuni brand (come la scozzese Irn-Bru) hanno tagliato la percentuale di zucchero per pagare un’imposta più leggera. Anche chi continua a consumare bevande di questo tipo ne ha quindi tratto beneficio.

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