Il più esplicito è stato Enrico Marchi, presidente dell’aeroporto Tessera di Venezia, uno che conosce meglio di molti altri il sistema degli scali italiani.

Sbigottito e costernato, ha ammesso che una roba del genere non l’aveva mai vista. Poi entrando nei particolari ha raccontato quel che è documentato anche dalle foto delle aree aeroportuali lost and found veneziane, quelle che un tempo si sarebbero chiamate degli oggetti smarriti: stanzoni tristemente ricolmi di valigie e trolley ammassati alla rinfusa che chissà se e quando torneranno in possesso dei loro proprietari.

A una televisione locale Marchi ha spiegato che può succedere che i bagagli arrivino all’aeroporto di Venezia anche 5 o 6 giorni dopo che è sbarcato il passeggero, il quale nel frattempo chissà dove è finito.

Che è un modo indiretto per dire che la maggior parte di quei bagagli è persa e comunque il passeggero che aveva il trolley al seguito e che magari stava andando in vacanza avrà i suoi bei problemi. Insomma, il caos totale.

Venezia è forse il caso più grave, ma non è isolato. Da Fiumicino a Malpensa e Linate, da Catania a Palermo e Verona le stesse scene si ripetono ovunque e il bollettino dei disagi quotidiani in aeroporto, dove il termine disagi è un eufemismo, sta diventando un’avvilente costante che affianca l’altro bollettino atteso e temuto da tutti gli italiani, quello del covid.

Nei primi giorni del caos montante, tutti gli addetti ai lavori, dal ministro delle Infrastrutture e della mobilità, Enrico Giovannini, fino al presidente dell’Enac, l’ente dell’aviazione civile, Pierluigi Di Palma, hanno dato spiegazioni plausibili e precise di quel che sta succedendo: la causa principale è l’imprevidenza delle grandi compagnie, soprattutto del nord Europa, a cominciare da Lufthansa e Ryanair, seguite dai gestori aeroportuali e degli handling che hanno sbagliato totalmente i calcoli sul covid.

Licenziamenti di massa

Quando la pandemia era nella fase acuta tanto da mettere letteralmente a terra il trasporto aereo, compagnie, società aeroportuali e di handling hanno scelto la strada estrema decimando gli organici e licenziando a destra e a manca.

Senza rendersi conto che quando la paura del virus fosse calata il rimbalzo del mercato sarebbe stato violento, cioè la gente, compressa per mesi e mesi tra le mura di casa, al primo accenno del tutti liberi si sarebbe data alla pazza gioia. E ai viaggi.

E a quel punto l’impatto sul sistema del trasporto aereo sarebbe stato così violento che quei lavoratori mandati a casa in tutta fretta sarebbero diventati indispensabile per evitare ciò che invece sta succedendo in tutti gli scali europei, da Heathrow a Londra a Francoforte, da Schipol ad Amsterdam al Charles De Gaulle di Parigi.

Ora siamo proprio nel bel mezzo della fase del liberi tutti che l’Europa sembra aver accettato come ineluttabile anche se i numeri del virus attestano il contrario.

Da noi in Italia è andata meglio perché il nostro welfare zoppicante ha fatto la differenza con il resto d’Europa, questa volta in positivo.

Anche in Italia il traffico aereo è ripreso in modo tumultuoso, facendo registrare tassi di crescita addirittura superiori a quelli di prima della pandemia. I dati di Assaeroporti sono eloquenti: a giugno i passeggeri transitati negli aeroporti italiani sono stati quasi 15 milioni e mezzo, con un incremento del 10,5 per cento rispetto allo stesso mese del 2019, i movimenti aerei, cioè atterraggi e decolli, sono stati più di 137mila (più 6,3 per cento), le merci trasportate sono state quasi 100mila tonnellate (più 1,6).

A tutto ciò si aggiunge un fenomeno relativamente nuovo, quello del quick commerce, alimentato soprattutto da Amazon, cioè le merci varie che viaggiano nella pancia degli aerei e moltiplicano il lavoro di carico e scarico degli handler che in questo momento stanno vivendo una stagione di grande euforia grazie a un incremento impensabile delle movimentazioni e di conseguenza anche degli incassi.

Cassa a doppio taglio

Da noi, però, non ci sono stati licenziamenti in massa, il sistema del trasporto aereo ha attinto a piene mani al vasto listino degli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. I costi del tracollo del mercato causa Covid sono stati di fatto scaricati sulla collettività, come è consuetudine per molte imprese italiane, ma questa volta la scelta è stata più provvidenziale che furba.

Alla ripresa massiccia e quasi schizofrenica dei viaggi l’Italia si è fatta trovare preparata, o meglio, meno impreparata di altri. Ma siccome quello aeroportuale è un sistema a rete, i disagi enormi causati dalle compagnie e dagli aeroporti del nord Europa si stanno ripercuotendo inevitabilmente anche sugli scali italiani.

Ma questa è solo una parte della spiegazione del perché anche gli aeroporti italiani sono entrati in affanno. Paradossalmente ciò che ha salvato gli scali nazionali, cioè quel welfare molto all’italiana che ha funzionato, è anche la causa delle enormi disfunzioni che si stanno verificando.

Quello che sta succedendo nella strana era del dopo Covid con il Covid ancora imperante, è che in Italia la pandemia e i suoi strascichi stanno facendo saltare, forse hanno già fatto saltare, il sistema di organizzazione del lavoro aeroportuale che negli anni prima del Covid aveva retto senza affanno anche se tra mille problemi nascosti sotto il tappeto come lo sporco.

Quel sistema si basava sull’uso massiccio del precariato e dei lavoratori stagionali, spesso spinto a livelli di sfruttamento ottocenteschi.

L’uso della cassa integrazione per i lavoratori regolari, a tempo indeterminato, ha paradossalmente mandato in corto circuito quel tipo di organizzazione. Nel momento in cui la gente è tornata a viaggiare con ritmi addirittura superiori a quelli di prima della pandemia, le società aeroportuali e quelle di handling che operano in Italia, da Aviapartner a Gh e Bcube Air Cargo, da Aviation service a Airport handling, hanno dovuto per legge richiamare a lavoro per primi i cassintegrati.

E a quel punto i precari e gli stagionali che in passato erano stati il serbatoio insostituibile e a buon mercato del lavoro aeroportuale, ma che per due anni sono stati lasciati a spasso senza il becco di un quattrino, si sono sentiti traditi, si sono fatti due conti in tasca e hanno deciso che forse c’è di meglio al mondo che un lavoro in aeroporto a quelle condizioni. La novità non da poco è che ci sono migliaia di lavoratori stagionali e precari che stanno voltando le spalle agli aeroporti e a un lavoro un tempo agognato e ora ritenuto una calamità da cui fuggire.

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