Tre giudici di una poco nota Corte americana, sospendendo i dazi di Donald Trump, hanno scatenato un’ondata positiva sui mercati azionari e rafforzato il dollaro. Gli investitori sperano che i dazi, pilastro dell’agenda economica trumpiana, restino formalmente “illegali”. Un’alleanza implicita anti-Trump tra giustizia Usa e mercati finanziari?

E qui entra in scena il TACO trade, ultimo acronimo in voga in borsa: “Trump Always Chickens Out” (“Trump si tira sempre indietro”). Coniato da Robert Armstrong, editorialista del Financial Times, indica come trarre profitto dei ribassi innescati dalle minacce di dazi del presidente, scommettendo sul fatto che poi farà marcia indietro (chi avrebbe pensato anche ai giudici?) e quindi i mercati rimbalzeranno.

Il nuovo acronimo

Al presidente è stato chiesto di commentare il TACO trade. Nello Studio Ovale, visibilmente infastidito, ha replicato: «Altro che TACO trade, si chiama negoziazione», spiegando che lui fissa di proposito «un numero a un livello ridicolo» per poi «abbassarlo leggermente» durante i negoziati con i partner commerciali.

Questo schema, negli ultimi due mesi, ha spinto hedge fund e banche d’affari a speculare in massa su tali oscillazioni. Strategia basata sulla previsione che le minacce tariffarie di Trump o non si concretizzano o vengono smussate (ci punta anche l’Ue). Mercato bipolare, dunque: dalla depressione all’euforia. Ma le prospettive di lungo periodo dell’economia ne soffrono, perché l’incertezza avrà conseguenze negative tangibili su decine di migliaia di aziende esportatrici, e influenzerà piani di investimento, lavoratori e consumatori. Mai prima d’ora il caos era stato così profondo nell’economia globale.

Anche per questo il mercato dei titoli di Stato è entrato in una fase di grande instabilità. I rendimenti delle obbligazioni a lunga scadenza, in particolare quelle emesse dal governo degli Stati Uniti, sono in aumento da settimane: chiaro segnale della crescente sfiducia per la direzione che Trump sta imprimendo all’America. La riprova è che il titolo trentennale Usa – benchmark del mercato – oscilla intorno al 5%, soglia psicologica considerata invalicabile per anni, ora nuova normalità. A portare a questi livelli di rischio i titoli americani sono stati i “bond vigilantes”: investitori che, vendendo obbligazioni o esigendo rendimenti sempre più alti, “puniscono” tutti i governi ritenuti fiscalmente irresponsabili. E l’amministrazione Trump è in testa.

Non sono una Spectre organizzata, ovviamente agiscono per profitto e non per spirito civico, ma incarnano un giudizio collettivo capace di orientare e persino stravolgere l’agenda economica di un paese. La fiducia non è infinita, chi governa deve farci i conti. In America il mix è esplosivo: un debito pubblico vicino ai 37 trilioni di dollari (cifra colossale, pari a 37.000 miliardi – l’Italia, pur essendo la nazione più indebitata d’Europa, sta a 3.024 miliardi di euro) a cui si aggiungono un contesto politico instabile e una credibilità fiscale in deterioramento.

La politica del debito

L’approvazione alla Camera di un nuovo piano di spesa presentato da Trump, fortemente espansivo sul fronte del deficit, ha aggravato i timori: la Casa Bianca punta ad aggiungere altri 3.000 miliardi di dollari al debito pubblico, nel prossimo decennio. Il problema non è soltanto l’entità del debito, ma la traiettoria politica che lo sostiene: promesse di tagli alle tasse senza coperture e politiche commerciali aggressive (e contraddittorie) che alimentano l’incertezza.

Trump lo sa bene: è stato costretto a una pausa di 90 giorni nei minacciati dazi globali “reciproci” dopo che i “bond vigilantes” hanno disertato un’asta di titoli triennali del Tesoro Usa, di solito priva di sorprese. La settimana scorsa il mercato ha lanciato un nuovo segnale, snobbando in parte anche l’asta di bond a 20 anni. Gli investitori si stanno allontanando dal rischio americano.

Il fenomeno non si limita agli Stati Uniti. Dal Regno Unito al Giappone, i tassi sono in rialzo ovunque e il messaggio dei “bond vigilantes” è: l’inflazione resta elevata, le banche centrali non assorbono più titoli di Stato come un tempo, i governi continuano ad accumulare debito, e noi non siamo disposti a essere usati all’infinito come bancomat per sostenere una spesa pubblica fuori controllo.

Stando così le cose, tempeste sui mercati potrebbero non essere episodi isolati in futuro. La sfida rimane quella tra spesa pubblica crescente, populismi economici e il ritorno del rischio sovrano anche in economie finora considerate solide. Nulla lascia presagire che lo scenario si chiarirà tanto presto.

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