Negli ultimi mesi, tre delle nostre maggiori società quotate a capitale privato – Tim, Atlantia e Generali – sono state oggetto di offerte pubbliche più o meno amichevoli.

La concomitanza potrebbe far ben sperare che siamo entrati in una fase di riorganizzazione delle nostre grandi società e di rilancio di una Borsa sempre più asfittica. Al contrario, è l’ennesimo segno del crepuscolo del nostro mercato dei capitali.

Tra i casi di Tim e Atlantia ci sono molte analogie. In entrambi, un fondo di private equity ha fatto un’offerta per l’intero capitale a un prezzo sostanzialmente superiore a quello di mercato evidenziando gestioni e strutture societarie poco efficienti, che hanno portato i due gruppi a valere meno della somma delle attività che li compongono.

Entrambe le società originano dalla stagione delle privatizzazioni, segno che i privati che si sono succeduti alla guida non hanno saputo far meglio dello stato azionista. In entrambi i casi l’offerta riguardava l’intero capitale per poter procedere al delisting. Entrambe sono controllate da un gruppo con una quota minoritaria: Tim dalla francese Vivendi, col 24 per cento, e Atlantia da Edizione della famiglia Benetton con il 31 per cento.

E in entrambe l’offerta del fondo non era vincolante perché, pur essendo la maggioranza del capitale sul mercato, la volontà a trattare l’uscita da parte del gruppo in controllo era il presupposto per avere successo.

In entrambi i casi, il gruppo di controllo ha però rigettato l’offerta, pensando di poter implementare lui la strategia del fondo per tenersi la creazione di valore; ovvero puntare a quel che non aveva saputo o voluto fare fin qui.

Tim

Fine delle analogie. A differenza del fondo Kkr, Vivendi vuole fare la riorganizzazione di Tim – fusione con Open Fiber per la creazione della società unica della rete, più la scissione dell’attività di servizi ai clienti retail da quella alle imprese in altrettante società, oltre alle attività in Brasile – mantenendo il gruppo quotato. Questo rende enormemente difficile il processo di riorganizzazione, per via della complessità di coniugare gli interessi di una compagine azionaria variegata.

Un problema già emerso nei rapporti con lo stesso fondo Kkr, che è anche socio di Tim in FiberCop, che dovrebbe confluire nella nuova società NetCo insieme alle altre attività di Tim nella rete, per poi fondersi con Open Fiber, il cui azionista di controllo (Cassa depositi e prestiti) è anche socio di Tim. Ma la Cassa vorrebbe uscire da Tim, ottenendone in cambio una partecipazione nella società unica della rete, dove bisognerà conciliare gli interessi del fondo Macquire, suo socio in Open Fiber.

Ci sono poi: la trattativa con un altro fondo, Cvc, per entrare nella nuova, ma ancora inesistente, entità Tim per i servizi alle imprese; la decisione su cosa fare del Brasile; e il tutto con un nuovo amministratore delegato in carica da pochi mesi (il quarto da quando è arrivato Vivendi).

Legittimo essere scettici sulle capacità di Vivendi di creare almeno il maggior valore che Kkr era disposto a riconoscere subito a tutti gli azionisti: così quelli di minoranza, che però rappresentano il 65 per cento del capitale, si ritrovano con il titolo Tim che vale a 27 centesimi, contro i 50 offerti da Kkr; e possono solo sperare che un piano lungo, complesso e di difficile realizzazione, faccia loro guadagnare in un futuro incerto quello che avrebbero potuto ottenere oggi. Non certo un bello spot per gli investimenti a Piazza Affari.

Atlantia

Differente l’approccio di Edizione che contrariamente Vivendi ha deciso di replicare l’offerta dei fondi Brookfield e GIP, lanciando a propria volta un’offerta pubblica sul flottante di Atlantia per ritirarla dalla Borsa, pagando un premio analogo a quello dei fondi, per poi gestire la riorganizzazione.

Per farlo si è alleata con il fondo Blackstone, lo stesso che insieme a Cassa depositi e prestiti e al fondo Macquire (quello di Open Fiber) aveva comprato Autostrade proprio da Atlantia. Ammesso che l’opa vada in porto, qui i soci di minoranza non sono danneggiati, ma è troppo poco per vederci segno di ritrovata vitalità della Borsa.

L’opa di Edizione non è infatti un tassello di un disegno preciso, ma solo una contromossa difensiva per evitare di perdere il controllo sulle attività di Atlantia. Che cosa vorrà farne una volta ritirata dalla Borsa, non si sa.

Ragionevole ipotizzare lo stesso che volevano i due fondi, ovvero negoziare con Acs di Florentino Pérez la cessione del controllo di Abertis, la concessionaria autostradale spagnola, per deconsolidare il suo ingente indebitamento, e smontare la partecipazione incrociata in Hochtief (controllata da Acs).

Acs, in quanto società di costruzioni, per di più spagnola, ha infatti maggiori sinergie con un concessionario autostradale iberico. E Atlantia, nonostante gli 8 miliardi dalla cessione di Autostrade, si ritroverà con un indebitamento in rapporto al margine operativo superiore a quella di settore (oltre 4 volte, la stima di consenso), a cui aggiungere il fardello dell’indebitamento necessario alla holding che lancerà l’opa e che sarà implicitamente garantito dalle attività della società operativa. Per Edizione, vendere qualcosa diventerà dunque imperativo. Ma dubito che userà la Borsa italiana per le sue future operazioni.

Anche perché le vicende di Tim e Atlantia sottolineano come ormai il vero mercato dei capitali sia fatto dai grandi fondi internazionali di private equity. Altro elemento del crepuscolo.

Generali

Nella vicenda Generali non ci sono fondi coinvolti, ma il tentativo del duo Caltagirone-Del Vecchio di scalzare l’amministratore delegato Philippe Donnet, sostenuto da Mediobanca.

Le critiche del duo alla gestione Donnet erano anche condivisibili, ma le soluzioni proposte poco convincenti, come già sottolineato su queste colonne. Così la vicenda si è rivelata per quel che era: una mera contesa per il controllo, usando il minimo del capitale possibile.

E i soci di minoranza, che anche qui hanno la maggioranza del capitale, hanno preferito lo status quo a un cambiamento senza apparenti vantaggi concreti.

Questo non migliorerà la gestione di Generali perché un cda spaccato rischia di bloccare la società, e l’appena riconfermato Donnet non vorrà smentirsi cambiando gestione e governance. Inoltre, il mercato avrà il timore che il duo, fallito l’assalto, liquidi le proprie partecipazioni, pesando sul titolo.

Secondo indiscrezioni di stampa il duo vorrebbe ora tentare un assalto a Mediobanca, di cui peraltro sono già soci rilevanti, per arrivare così al controllo di Generali. Al di là del fatto che il tempo e l’anagrafe giocano a loro sfavore, la Bce ha più volte affermato di non volere imprenditori in controllo di una banca vigilata. Capitolo chiuso, quindi.

Breve post scriptum per Crt, la fondazione di origine bancaria che è stata compagna di Caltagirone nel fallito tentativo di scalata a Generali, come pure dei Benetton nell’opa su Atlantia: una vocazione da corporate raider che mal si addice alla prudente gestione del patrimonio e diversificazione dei rischi che una istituzione dedita per statuto al sostegno del terzo settore e del territorio dovrebbe adottare.

La sensazione è che il crepuscolo di Piazza Affari si stia ormai consumando. E la notte si avvicini.

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